Quasi la metà dei clienti Italiani dichiara di voler cambiare il proprio wealth manager nei prossimi tre anni
Circa la metà degli intervistati nello studio di EY non è in grado di valutare se il prezzo che paga per la consulenza è equo o meno
La consulenza realizzata per obiettivi permette di comunicare in maniera migliore il valore del servizio prestato
Secondo il Global Wealth Management Report di EY – per il quale sono stati intervistati oltre 2000 clienti e 50 operatori, per una copertura totale di circa 70 mila miliardi di masse in 26 paesi – fidelizzazione, offerta, modelli di servizio, evoluzione digitale e pricing sono i pilastri attorno ai quali ruota il delicato rapporto tra cliente e wealth advisor.
Dalla ricerca emerge uno scarso livello di fidelizzazione dei clienti italiani verso il proprio wealth manager: il 46% di questi infatti è propenso a cambiare provider di servizio nei prossimi tre anni. La propensione al cambiamento, spiega il report EY, aumenta in corrispondenza dei key life events, i momenti di discontinuità della propria vita: la nascita di un figlio, il cambio di lavoro, la separazione o l’arrivo di un’eredità, il pensionamento. “Solo monitorando le vicende della vita del cliente si può prevedere un eventuale cambio di rotta”, ha precisa Giovanni Andrea Incarnato, partner di Ey e responsabile wealth&asset management Italia, nel corso della presentazione che si è tenuta a Palazzo Parigi, a Milano.
Quali fattori sono più importanti per i clienti?
Sia in Italia che in Europa, secondo il report, il fattore più importante rimane ancora quello delle commissioni. In seconda battuta, però, hanno un ruolo importante anche le competenze di advisory, perché – specie in Italia – l’investitore è conservativo e ha bisogno di una figura che lo tranquillizzi. Importante poi è anche la reputazione del brand, un altro elemento di sicurezza. La tecnologia conta più che in Europa, dove è invece data per scontata.
A completare il quadro è intervenuta anche Antonella Massari, segretario generale Aipb, che riportando i dati dell’Osservatorio annuale dell’associazione, ha messo il focus sulla nuova generazione di investitori private. Oltre la metà di loro (60%) dichiara che potrebbe cambiare provider di servizio in funzione di un cambiamento delle condizioni contrattuali, per errori operativi (58%) o per una generale insoddisfazione del servizio. E’ attento invece alla qualità delle comunicazioni sono il 19% degli intervistati. Una parte maggioritaria di clientela tradizionale vede ancora nel referente il principale attore del servizio di private banking. Un’altra parte, concentra le proprie aspettative sul livello di performance a breve del portafoglio. I ridotti spazi di crescita della performance negli scenari di mercato degli ultimi tempi dovrebbero aiutare a convincere, secondo Massari, questa fascia di clienti a valutare il livello di servizio sulla base di indicatori più articolati. Una cosa è sicura per Aipb: se il cliente non lo sa, è necessario spiegargli quale imponente struttura sostiene il lavoro del private banker.
Guardando al futuro
Secondo l’analisi EY in futuro i clienti private si affideranno sempre più alla figura del wealth manager. Ma una grande parte della nuova clientela verrà intercettata dal modello di consulenza indipendente (+12%) o dalla robot advisory (+10%). I clienti vogliono sfruttare a pieno le proprie risorse finanziarie, ha precisato Incarnato, e sull’effetto di Mifid2 potrebbero avvicinarsi alla consulenza più trasparente (fee only) o a quella a più basso costo (fintech). Rimane però il fatto che reti e banche tradizionali sono, secondo il partner EY, le uniche a poter offrire il servizio a tutto tondo e difficilmente potranno essere disintermediati dai nuovi player. “La vera sfida sarà comunicare correttamente il valore della consulenza”.
Percezione del valore della consulenza
Una reportistica strutturata, le gestioni patrimoniali, la consulenza finanziaria e le soluzioni di nicchia sono gli elementi che il cliente apprezza maggiormente e per i quali sarebbe disposto a pagare di più. Un calcolo difficile da realizzare, considerato il livello particolarmente basso della consapevolezza in fatto di prezzo che il cliente italiano evidenzia. Il 18% degli intervistati ha infatti dichiarato di non conoscere tutte le tipologie di commissioni che paga e il 38% ne conosce la natura ma non il costo. La percezione del prezzo della consulenza aumenta però all’aumentare del portafoglio: per i clienti con masse in gestione superiori ai 5 milioni di euro la percentuale di consapevolezza sale al 59%. Sul giudizio poi, nel merito, dell’appropriatezza di questi prezzi, in Italia la situazione è drammatica (o entusiasmante, a seconda dei punti di vista): il 34% dei clienti si dichiara d’accordo con le commissioni che paga, ma un importante 48% si posiziona in maniera neutrale perché non in grado di valutare. In pratica, quasi la metà della clientela non sa se il prezzo del servizio che riceve è ragionevole o meno. In Europa la percentuale è quasi la metà (25%). E’ importante, ha concluso Incarnato, che la consulenza ragioni per obbiettivi, perché il cliente percepisca la strada percorsa. Lo è altrettanto il lavoro di comunicazione del wealth planner, perché il cliente colga i progressi realizzati e ne possa quindi riconoscere il prezzo.
Va precisato che i dati sono stati rilevati prima dell’invio delle rendicontazioni Mifid2: può essere che questa lacuna, con la reportistica di fine estate sia stata colmata.