Il wealth management ha bisogno di fare squadra

La domanda dei clienti del wealth management è in profonda e
continua evoluzione. Le ricerche vanno tutte nella stessa direzione: gli Hnwi
vogliono una consulenza olistica – che abbracci la pianificazione patrimoniale,
immobiliare, gli aspetti di protezione e di passaggio generazionale - e un interlocutore
unico. Ma la risposta delle banche e degli intermediari in genere non è così
efficace, perché il banker è spesso un battitore solista e manca, anche a
livello concettuale, una squadra a supporto. Una squadra che va intesa come
quella del pilota di Formula 1 che è alla guida, ma necessita di una serie di
competenze accessorie e diverse per portare a termine la propria corsa. Ne
abbiamo parlato con Silvio Malanga, ceo e founder di H2O-Human to organization,
società di consulenza con un forte focus sull’applicazione delle
neuroscienze al management, fondata nel 2016 e che annovera tra i clienti
le maggiori banche (Unicredit, Credem - Banca Euromobiliare, Bper, Bnl) e
assicurazioni italiane (UnipolSai, Generali, AXA). Alle strutture di private
banking e wealth management H2O insegna come instaurare “la fiducia, che offre
al cliente la sensazione di essere al sicuro e che rappresenta le fondamenta di
ogni relazione”, dice a We Wealth Malanga. La fiducia è alla base delle
relazioni tra cliente e banker e deve essere il motore che anima il concetto
innovativo di squadra di cui il wealth management avrà sempre più bisogno.
Bisogni complessi, interlocutore unico
Un bisogno che è evidenziato dai numeri. Per esempio quelli dell’ultimo EY Global Wealth Research Report 2021, secondo cui il 76% dei clienti wealth italiani è disponibile a condividere i propri dati con le istituzioni finanziarie (solo il 61% dei rispondenti li condivide con piacere con medici e operatori sanitari, tanto per avere un termine di paragone): esiste un credito di fiducia che va sfruttato. Anche perché, se non lo si fa, è probabile che questi stessi clienti guardino altrove: il 40% valuta di rivolgersi a un altro operatore, per affidargli circa un terzo della sua ricchezza finanziaria. Perché rileva la mancanza di competenze distintive nell’offerta e nel modello di servizio dell’attuale gestore. Ancora, la ricerca segnala che il 36% dei clienti italiani sente l’esigenza di un unico provider finanziario per accedere a tutti i prodotti e servizi. E poiché gli intermediari che non hanno le competenze richieste non possono costruirle da zero, dovranno strutturare ecosistemi in cui esse siano messe a disposizione da terze parti. Ecosistemi in cui la relazione banker-cliente resti però il perno, e il motore della squadra che sarà alla base della consulenza olistica e integrata di cui parliamo.
La squadra deve capitalizzare sulla fiducia
“Un banker ha la propria forza nel cliente che lo segue. Questo determina il suo valore e quindi il suo potere contrattuale. È suo interesse mantenere alto il livello di soddisfazione ma soprattutto la reputazione costruita e alimentata in anni di supporto, vicinanza e cura”, dice Malanga. “Perché il consulente o il banker porti dal cliente, che sente suo, il collega esperto di una materia di cui ha un presidio solo parziale, serve un ingrediente fondamentale: la fiducia tra banker/consulente e gli specialisti”. Tuttavia il punto di partenza è un altro. Ovvero quello che consente di collocare banker e consulenti che operano nel wealth e nel private in una squadra: operazione difficile, anche dal punto di vista mentale. “Non solo perché i banker sono tutti finalizzatori, perché in alcuni casi hanno indole individualista, o perché sono i titolari di relazione e portafoglio, ma perché dal punto di vista manageriale è molto complesso coordinarli – spiega Malanga - Ci sono due ordini di problemi: il primo è quasi “iconografico”. Quando si pensa alla squadra viene sempre in mente la squadra di calcio, e agli occhi del coach – se si parla di banker - è come se ci fossero solo attaccanti. Una squadra di soli attaccanti non funziona. L’altro aspetto è che per svariati motivi, con radici più culturali che operativamente rilevanti, il team è quello dei banker o dei consulenti, e non quello per esempio di un’area o di un territorio”.
Il team ideale? Come quello di F1
Mentre la squadra di cui si ha bisogno nel wealth management è composta dal banker e dal consulente, dall’assistente, dallo specialista: “banche e assicurazioni spingono su modelli di servizio perché siano completi e presentati in modo differenziato – dice Malanga - e internamente lavorano affinché banker e consulenti abbiano conoscenza del sistema di offerta. È questo è coerente con lo scenario: il cliente di questi segmenti si aspetta un’ampia gamma di servizi, ma continua a preferire l’interlocutore unico che garantisca le soluzioni specialistiche. Parliamo di fiscalità, immobiliare, estero, passaggio generazionale, protezione … ma il banker è la garanzia della qualità”. Insomma, le banche lo sanno ma ad oggi si sono limitate a fare marketing, alle brochure e alla creazione di strutture interne di esperti disponibili e preparati. “Ora resta il passaggio finale – dice Malanga – ma probabilmente il più importante: costruire il team, tendenzialmente di territorio, dove banker, specialisti, assistenti e anche personale di Centro private lavorano insieme animati da appartenenza e vero spirito di squadra. Questa è la sfida manageriale: l’area manager deve andare oltre la relazione uno a uno con i banker o gli eventi in un circolo ristretto con i soli banker. Modalità che accentua la distanza. Occorre far lavorare insieme le persone di questi team per consolidare oltre ai processi e la collaborazione, soprattutto la fiducia e il piacere di condividere attività, trovando una nuova sincronizzazione, favorendo finalmente la piena integrazione. Lì l’azione commerciale passa di livello: il team diventa valore aggiunto riconoscibile per il cliente e fattore attrattivo per gli altri banker che si vogliono reclutare”.
E la sostanza parte dalla forma: va modificato lo stile di coordinamento degli area manager, dei team leader o responsabili di canale. “Nello specifico – conclude Malanga - le riunioni periodiche di avanzamento e aggiornamento vanno riviste perché hanno una formula costruita su routine troppo quantitative e con una partecipazione da trasformare in coinvolgimento”.