É giunta l'ora dell'helicopter money?

30.12.2019
Tempo di lettura: 3'
L'aumento delle disuguaglianze e il populismo dilagante, figli della stagnazione secolare, richiedono nuovi paradigmi. E una stretta collaborazione tra politica monetaria e di bilancio
Come avanza la scienza? Nella quiete e nel riposo del pensatore, che crea nuove idee e nuovi paradigmi? O nella polvere e nelle macerie di un terremoto, che smonta e distrugge quel che si pensava prima, facendo emergere una realtà che le teorie precedenti non potevano spiegare?
Per quanto riguarda la scienza economica, l'economista del secolo scorso Jacob Marschak non ha dubbi: già in un articolo del 1945 passò in rassegna la situazione della scienza economica, la progressiva comprensione di che cosa muova i cicli dell'economia, e fece un confronto con quel che muove i progressi delle altre scienze. Scrisse che nella sismologia, per esempio, i progressi “sono dovuti a migliori strumenti di rilevazione, a più affinate teorie e a più frequenti esami dei terremoti”.
Nel caso dell'economia, concludeva Marschak, “è tutto dovuto ai terremoti”. Fuor di metafora, l'economia si decide a cambiare pelle quando nel mondo reale, in quanto differente dalle rappresentazioni che ne fanno i modelli economici, succede qualcosa di imprevisto. E questo imprevisto è di solito talmente grosso che costringe gli economisti a tornare alla lavagna e a inventarsi altre spiegazioni sugli alti e bassi del sistema economico. La Grande recessione del 2008-2009 è stata senza dubbio un terremoto per la scienza economica. Un terremoto che ha avuto come linea di faglia le relazioni tra economia e finanza: le due discipline sono legate, anzi, dovrebbero essere una sola. Ma in passato troppo spesso la finanza è stata considerata come un'ancella dell'economia, prima di assumere, in quel brutto biennio, i panni di una crudele padrona. La Gran- de recessione è stata il più grosso inciampo dell'economia mondiale dagli anni ‘30 e ha frantumato quelle attese di crescita costante che erano state il fiore all'occhiello del Dopoguerra, di quei decenni che avevano incorniciato il periodo di più forte e continua espansione dell'economia nella storia dell'umanità. Quella crisi ha spezzato le ‘aspettative crescenti', quelle pacate certezze che guardano a un futuro migliore, quelle convinzioni che ogni generazione avrebbe conosciuto un livello di benessere più alto rispetto alla generazione precedente.
Gli alti e bassi del ciclo... Può sembrare una descrizione puramente meccanica, una puleggia che va su e va giù. Ma, nel delicato meccanismo psicologico che regola le propensioni alla spesa degli attori economici, la Grande recessione è stata qualcosa di molto più serio di un “basso” del ciclo economico. In un recente articolo su Scientific American, Michael Hogg, un docente di psicologia sociale, scrive: “La gente ha bisogno di un solido senso di identità, del proprio posto nel mondo”. Ma, quando la Grande recessione colpì il pianeta, proprio mentre epocali cambiamenti socio-politici andavano agitando l'economia e la società – dalla globalizza- zione alla rivoluzione tecnologica, dalle ondate migratorie ai cambiamenti climatici –, la gente non ritrovò quella bussola che fino allora aiutava a dare senso e significato al proprio vivere. Non è un caso se molti trovano rifugio in leader auto- ritari e aderiscono a ideologie “che promuovono e celebrano i miti di un glorioso passato. Timorosi di chi è differente da loro, cercano omogeneità” e, nel diluvio delle informazioni disponibili online, accedono a quelle “che confermano quello che sentono o quello che vorrebbero essere. Come risultato, cresce il populismo”.
A crescere non è solo il populismo. Aumentano anche le diseguaglianze. Il rimescolio dei posti innestato da tecnologia e globalizzazione ingenera incertezza e tensioni. La sicurezza del posto di lavoro non è più una certezza. Il lavoro si ritrova (i tassi di disoccupazione sono scesi parecchio e sono ai minimi storici in Usa e Giappone), la sicurezza no.
Populismo e diseguaglianze non hanno solo ramificazioni politiche. Hanno anche effetti economici. L'economia rallenta perché l'invidia sociale e l'incertezza sull'avvenire minano le propensioni alla spesa di famiglie e imprese. Il grafico mostra come, nei Paesi avanzati, negli ultimi dieci anni la crescita del Pil non sia ancora tornata ai livelli medi di prima della Grande recessione. Ecco perché avanzano nuovi paradigmi. Malgrado il supporto delle politiche monetarie (vedi i bassi tassi reali, perfino negativi), la crescita rimane insufficiente a fugare il malcontento e le frustrazioni. Emerge allora l'ipotesi che governi e Banche centrali debbano collaborare più strettamente per stimolare un'economia che alcuni credono affetta da una stagnazione secolare. Stagnazione secolare o no, l'economia non dà segni di crescita robusta né di inflazione. E questa 'collaborazione' necessaria fra politica monetaria e politica di bilancio può voler dire – “orrore!”, direbbero i benpensanti che hanno attaccato Draghi per la sua politica espansiva – finanziamento monetario dei deficit pubblici, o Helicopter money: soldi dall'elicottero.
Gli alti e bassi del ciclo... Può sembrare una descrizione puramente meccanica, una puleggia che va su e va giù. Ma, nel delicato meccanismo psicologico che regola le propensioni alla spesa degli attori economici, la Grande recessione è stata qualcosa di molto più serio di un “basso” del ciclo economico. In un recente articolo su Scientific American, Michael Hogg, un docente di psicologia sociale, scrive: “La gente ha bisogno di un solido senso di identità, del proprio posto nel mondo”. Ma, quando la Grande recessione colpì il pianeta, proprio mentre epocali cambiamenti socio-politici andavano agitando l'economia e la società – dalla globalizza- zione alla rivoluzione tecnologica, dalle ondate migratorie ai cambiamenti climatici –, la gente non ritrovò quella bussola che fino allora aiutava a dare senso e significato al proprio vivere. Non è un caso se molti trovano rifugio in leader auto- ritari e aderiscono a ideologie “che promuovono e celebrano i miti di un glorioso passato. Timorosi di chi è differente da loro, cercano omogeneità” e, nel diluvio delle informazioni disponibili online, accedono a quelle “che confermano quello che sentono o quello che vorrebbero essere. Come risultato, cresce il populismo”.
A crescere non è solo il populismo. Aumentano anche le diseguaglianze. Il rimescolio dei posti innestato da tecnologia e globalizzazione ingenera incertezza e tensioni. La sicurezza del posto di lavoro non è più una certezza. Il lavoro si ritrova (i tassi di disoccupazione sono scesi parecchio e sono ai minimi storici in Usa e Giappone), la sicurezza no.
Populismo e diseguaglianze non hanno solo ramificazioni politiche. Hanno anche effetti economici. L'economia rallenta perché l'invidia sociale e l'incertezza sull'avvenire minano le propensioni alla spesa di famiglie e imprese. Il grafico mostra come, nei Paesi avanzati, negli ultimi dieci anni la crescita del Pil non sia ancora tornata ai livelli medi di prima della Grande recessione. Ecco perché avanzano nuovi paradigmi. Malgrado il supporto delle politiche monetarie (vedi i bassi tassi reali, perfino negativi), la crescita rimane insufficiente a fugare il malcontento e le frustrazioni. Emerge allora l'ipotesi che governi e Banche centrali debbano collaborare più strettamente per stimolare un'economia che alcuni credono affetta da una stagnazione secolare. Stagnazione secolare o no, l'economia non dà segni di crescita robusta né di inflazione. E questa 'collaborazione' necessaria fra politica monetaria e politica di bilancio può voler dire – “orrore!”, direbbero i benpensanti che hanno attaccato Draghi per la sua politica espansiva – finanziamento monetario dei deficit pubblici, o Helicopter money: soldi dall'elicottero.