Banche d’affari: quale riforma è possibile senza “penalizzazione”?

Prima delle elezioni, Salvini, “leader” della seconda forza dello schieramento di centro-destra (questi poi risultato vincitore), ha posto la necessità della riforma delle banche d’affari (anche “merchant bank”) per limitare la loro possibilità di esercitare altre attività bancarie e finanziarie. La stessa proposta è stata avanzata dopo le elezioni dalla maggioranza di governo di centro-destra.
La potenza delle banche d’affari e le possibilità di abusi sono troppo note, il che giustifica l’attenzione e pone la prospettiva di un intervento rigoroso. In altra occasione, recentemente, in questa sede, si è criticata ogni ipotesi del genere, irrealistica e anacronistica nel momento in cui vuole spezzare artificiosamente l’unitaria attività finanziaria: basti pensare al collegamento tra depositi bancari e investimenti finanziari e tra loro e i crediti, nonché tra attività di produzione e quelle non solo di distribuzione ma anche di consulenza.
E la limitazione, da introdurre a livello di singola società, può essere rimossa a livello di gruppo, rendendola così in-effettiva, come in tutto l’Occidente, tranne che in Israele. Del resto, staccando le banche d’affari dalle altre banche, le si lascerebbero nelle mani esclusive di gruppi industriali e meramente speculatori, con una diminuzione complessiva drastica delle garanzie di buon funzionamento del settore.
Il controllo sulle banche d’affari
Non è tagliando le unghie alle banche d’affari per ridimensionale - estendendo magari il taglio a pezzi di carne viva - che si risolve il problema degli abusi, connaturato alla finanza, soprattutto con la recessione e con l’inflazione, che richiedono la sottoposizione agli investitori privati di prodotti e servizi dal profilo di rischio alto per battere l’inflazione e comunque per tener conto della situazione generale di assoluta instabilità, e facendo in modo che le loro disponibilità finanziarie affluiscano direttamente alle imprese produttive in modo da sostenerle – direttamente - nel momento di crisi, senza farle passare per il tramite di investitori professionali, con la conseguenza, indefettibile, che gli stessi investitori privati si trovino a correre rischi elevati prima riservati agli altri.
Infatti, così, le banche d’affari, se vedono, presumibilmente, diminuire l’ambito delle negoziazioni dirette, dall’altro acquisiscono il compito di contribuire al confezionamento di tali prodotti e servizi: e quindi il loro ruolo è veramente decisivo ai fini dell’adeguatezza e della meritevolezza degli stessi prodotti e servizi.
Gli strumenti di controllo sui servizi di investimento in generale non sono sufficienti, in quanto tarati su operazioni tipiche di investimento, standardizzate e diversificate e così dal rischio se non (sempre) limitato (il che è comunque quanto meno una linea tendenziale, anche per i prodotti più dinamici, in cui, in ogni caso, il risparmiatore deve mantenere una distanza di fondo rispetto agli investimenti), quanto meno controllato, il tutto il contrario del nostro caso.
Un nuovo approccio per trasformare il ruolo delle banche d’affari
Ebbene, l’alternativa che si presenta al riguardo - vale a dire un’ottica di controlli pubblici in grado di cogliere il ruolo delle banche d’affari decisivo e predominante, nel processo di determinazione degli assetti finanziari ed economici, e di limitarlo - è doverosa ma francamente tropo ambiziosa: come si può controllare chi ha il potere totale sull’economia?
L’approccio deve evidentemente essere più generale e globale per trasformare il ruolo delle banche d’affari. È necessario un cambio di prospettiva radicale. Le valutazioni positive che le “merchant bank” fanno, nella loro opera di collocamento dei prodotti e titoli sofisticati degli emittenti e degli offerenti e comunque rientranti in operazioni complesse, o anche di confezionamento degli uni e delle altre (cosiddette “arrangement”) sono circoscritte al loro collocamento sul mercato, mentre occorre che tengano conto anche dell’interesse dei risparmiatori, finora escluso dalla loro considerazione.
Un siffatto cambiamento epocale non sarà mai accettato facilmente da loro, in quanto provoca un allargamento enorme della loro prestazione e della loro responsabilità, e soprattutto un cambiamento del loro profilo sul mercato, da supporto dell’offerta a ruolo di ponderazione di entrambi i fattori economici sul mercato finanziario, in un’ottica “arbitrale” idonea a porre in essere un avanzamento straordinario dell’operatività e del suo livello.
Il punto di partenza nel senso del cambiamento, tale da imporsi alle “merchant bank”, può delinearsi esclusivamente se sorge la necessità della stabilizzazione dei ricavi e del contenimento dei super-profitti e con aumento del fatturato contenuto nei limiti consentiti da programmi industriali strategici, anche sfidanti, purché nei limiti di detta stabilizzazione. Il ritorno alla stabilità bancaria, come appena concepito, in situazioni, quali quelle attuali, del tutto contrarie, anche alla luce della prevalenza della speculazione finanziaria sulla politica monetaria, in tanto è ammissibile solo in quanto si radica, a monte, la necessità di ritornare ad un flusso costante e stabile di risorse finanziarie verso le imprese produttive e l’economia reale.
In altri termini, il vero nodo è uno solo: si possono ravvisare, finanche a livello potenziale, gli estremi di un mutamento forzato derivante dall’incapacità dell’economia di reggere a lungo in presenza di un assetto altamente speculativo, quale quello attuale?
Le avvisaglie di un disastro alle porte ci sono tutte e così la domanda non appartiene al piano del catastrofismo o della mera accademia.
L’alternativa qui abbozzata, in caso per l’appunto di risposta positiva alla domanda, può essere anche graduale con scissione tra settore speculativo e settore produttivo: in entrambi i settori, il ruolo decisivo sarebbe delle “merchant bank”.Su tale – possibile - ruolo in due settori dal funzionamento alternativo l’uno all’altro si apre una riflessione teorica su cui tornare a parte.