Il direct indexing, un approccio di investimento che prevede la replica di un indice attraverso il possesso diretto delle azioni che lo compongono da parte del cliente finale, è un trend crescente negli Stati Uniti e le barriere di ingresso si stanno riducendo
Entro il 2021 i primi servizi di questo tipo arriveranno anche in Italia. Il professor Carlo Alberto Carnevale Maffè è intervenuto al Fintech district di Milano accogliendo con favore l’idea che l’investitore, non necessariamente affluent, conosca e possa intervenire nella composizione dei portafogli – con costi di gestione competitivi
Sono dubbi che non potevano che affiorare nel corso della prima tavola rotonda mai dedicata in Italia al tema, mercoledì 9 febbraio presso il Fintech district di Milano. Il direct indexing è un’innovazione tecnologica che permette di acquisire direttamente un pacchetto di azioni che compone un certo indice di riferimento, con la possibilità di personalizzarlo a piacimento a costi ridotti (ne avevamo parlato nel dettaglio in questo articolo). E’ importante sottolineare che, quando si investe tramite una piattaforma di questo tipo, non si stanno acquistando le quote di un fondo, come avviene tramite l’investimento in Etf.
Negli Stati Uniti sbarcherà a marzo il primo servizio di direct indexing con barriere di ingresso contenute: i FidFolios di Fidelity, a partire da 5mila dollari. A rendere economicamente sostenibile la creazione di portafogli composti da tanti singoli pezzi, anche per un piccolo cliente, sono alcune conquiste recenti come l’abbattimento dei costi di transazione e l’acquisto di frazioni di azioni.
Secondo il professor Alberto Carnevale Maffè, professore associato presso la SDA Bocconi School of Management, quella del direct indexing è una soluzione a metà strada fra il prodotto passivo puro, rappresentato oggi dagli Etf e dai loro bassi costi, e dei servizi di personalizzazione finanziaria per i quali si paga tipicamente un onere aggiuntivo.
“Gli Etf hanno il difetto della rigidità”, ha affermato Maffè, poiché l’approccio di investimento basato su questi fondi non incoraggia gli investitori a capire che cosa ci sia dentro. “Il direct indexing non è una panacea”, ma ha un grande vantaggio, secondo Maffè, “è un’occasione benvenuta per educare il mercato in Italia e porta elementi di efficienza in un Paese contraddistinto da elevati costi di gestione”. Partire da un portafoglio modello, per poi procedere aggiungendo o togliendo alcuni titoli a discrezione del cliente sarebbe, nell’ottica di Maffè, una prassi d’investimento molto più responsabilizzante e istruttiva. I costi di gestione del direct indexing, d’altro canto, sono più bassi rispetto a quelli di un fondo a gestione attiva.
In Italia il direct indexing resta ancora una terra tutta da esplorare. Cirdan Capital, come avevamo anticipato qualche mese fa, dovrebbe essere la prima società a offrire un servizio di questo tipo nel Paese, e lo farà entro il 2021 (probabilmente nella seconda metà dell’anno). I costi di gestione del servizio si aggireranno intorno al mezzo punto percentuale, con commissioni minime sui ribilanciamenti (per la sola componente sulla quale si è intervenuti).
Il direct indexing potrebbe giocare un ruolo importante in un contesto nel quale sempre più investitori vogliono investire in società coerenti con i propri valori. Questo in parte già avviene attraverso fondi tematici, ad esempio a caratterizzazione net zero o green. Secondo Maffè, tuttavia, il modello del fondo tematico resta chiuso: è il gestore che sceglie i titoli, mentre al cliente spetta solo la selezione del fondo.
Il principale avvertimento che il professor Maffè ha lanciato alla platea, che in buona parte sentiva parlare di direct indexing per la prima volta, è stato il seguente: non si pensi che personalizzare gli indici possa aiutare a battere il mercato. In questo senso il direct indexing è più parente dell’investimento passivo, che rinuncia alla difficile promessa della sovraperformance.
Resta, alla fine, solo un dubbio. Se la scelta è fra il direct indexing e un prodotto pronto all’uso come un Etf, che quantomeno non perde terreno rispetto alle performance del suo indice di riferimento, quanti resterebbero disposti a pagare un piccolo extra per poter modificare il proprio indice di azioni e ottenere performance (molto probabilmente) peggiori?