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In Italia, esistono tre tipi di trattamento pensionistico pubblico (INPS): il regime contributivo, il regime retributivo e il regime misto. Ma attenzione: col sistema contributivo, attualmente in vigore, la pensione raggiunge (a seconda della professione svolta e degli anni di contribuzione) un range pari a circa il 25-55% dell’ultima retribuzione percepita, quindi ben inferiore all’80% massimo raggiungibile nel “vecchio” sistema retributivo puro!
Cerchiamo di analizzare nel dettaglio come stanno le cose, per capire come le forme pensionistiche complementari possono aiutare a colmare questa diminuzione dell'assegno pensionistico. I fondi pensione sono infatti uno strumento di risparmio previdenziale volontario volto appunto a sopperire alla diminuzione di pensione pubblica.
Il regime retributivo
Il regime retributivo riguarda tutti quei lavoratori andati in pensione entro il 31.12.1995 o che, a tale data, potevano vantare una anzianità contributiva di almeno 18 anni. In questo caso, l'ammontare della prestazione pensionistica è generalmente pari al 2% della media delle ultime retribuzioni appena prima della pensione per ogni anno di contribuzione: con 25 anni di contributi si ha diritto al 50% della media degli ultimi stipendi, con 35 anni di contributi si ha diritto al 70% sino a raggiungere l'80% con 40 anni di contribuzione.
Le regole però sono cambiate per effetto della Riforma Fornero che ha abolito il sistema retributivo per tutti i lavoratori a partire dal 1° gennaio 2012, anche se continua ad essere applicato per determinare una parte dell'importo della pensione per i lavoratori in possesso di anzianità contributiva antecedente.
Attualmente, pertanto, il metodo retributivo si applica esclusivamente pro quota:
1. ai contributi di anzianità maturati fino al 31/12/2011 per chi al 31.12.1995 poteva far valere almeno 18 anni di anzianità contributiva (le anzianità successive al 2011 sono determinate con il sistema contributivo);
2. ai contributi maturati sino al 31.12.1995 per chi a tale data non poteva far valere almeno 18 anni di anzianità (le anzianità successive al 1995 sono calcolate con il sistema contributivo).
Il regime contributivo
Il regime contributivo riguarda i lavoratori iscritti alla Gestione Separata dell'INPS (Istituto Nazionale della Previdenza Sociale), i lavoratori autonomi e i lavoratori del settore privato che hanno iniziato a lavorare a partire dall’1.1.1996 (che non avevano quindi mai versato alcun contributo al 31.12.95).
In questo regime, la pensione è calcolata in base ai contributi effettivamente versati durante la carriera lavorativa, rivalutati sulla base della crescita del costo della vita, e convertiti in rendita pensionistica sulla base di coefficienti di conversione dipendenti da due fattori: l’età raggiunta e le tavole demografiche, che si basano sulla “media” di vita residua per quella determinata età raggiunta.
Il sistema contributivo riconosce una pensione ben più bassa di quella calcolata in passato col sistema retributivo (vedasi sotto), ed è stato introdotto proprio per questo motivo: lo Stato si era reso conto che il sistema retributivo era divenuto insostenibile per le casse statali, e lo ha quindi introdotto con gradualità passando per il sistema misto (vedasi sempre sotto). Col sistema contributivo, la pensione raggiunge (a seconda della professione svolta e degli anni di contribuzione) un range pari a circa il 25-55% dell’ultima retribuzione percepita, quindi ben inferiore all’80% massimo raggiungibile nel “vecchio” sistema retributivo puro!
Il regime contributivo misto
Il regime contributivo misto, introdotto con la riforma pensionistica Dini del 1995 e poi modificato dalla riforma Fornero come detto sopra, prevedeva (riforma Dini) che i lavoratori, attivi al 31.12.1995 ma con un’anzianità contributiva inferiore a 18 anni, andassero in pensione con un “doppio sistema”, che prevede il regime retributivo per i contributi versati sino al 31.12.1995, e l’applicazione del regime contributivo per i contributi versati dopo il 31.12.1995.
La riforma Fornero, come visto, lo ha ulteriormente “peggiorato” (per chi va in pensione con tale sistema), prevedendo che (repetita iuvant) il sistema retributivo venga applicato solo: ai contributi di anzianità maturati fino al 31/12/2011 per chi al 31.12.1995 poteva far valere almeno 18 anni di anzianità contributiva (le anzianità successive al 2011 sono determinate con il sistema contributivo); ai contributi maturati sino al 31.12.1995 per chi a tale data non poteva far valere almeno 18 anni di anzianità (le anzianità successive al 1995 sono calcolate con il sistema contributivo).
A tutti gli altri contributi versati, e per chi ha iniziato a contribuire / lavorare dal 1.1.1996, si applica il regime contributivo.
Come evolve il sistema pensionistico pubblico
Da quanto visto finora, emergono due evidenze. La prima è che il regime misto è destinato a sparire (man mano che la popolazione avente diritto alla pensione mista andrà in pensione): rimarrà in piedi solo il regime contributivo.
La seconda è che il sistema contributivo è il più penalizzante dei 3 sistemi, poiché:
a. riconosce a chi va in pensione una rendita pensionistica calcolata sulla base della propria contribuzione (e non una percentuale della retribuzione prestabilita)
b. La rivalutazione dei contributi è stata negli anni molto ridotta, in quanto il PIL reale (quindi già corretto e depurato dall’inflazione) non è cresciuto di molto, di anno in anno, dal 1996 ad oggi (per gli anni a partire dal 2000 in avanti vedasi qui: https://www.programmazioneeconomica.gov.it/andamenti-lungo-periodo-economia-italiana/#Tasso%20di%20crescita%20del%20PIL%20reale)
c. i coefficienti di trasformazione in rendita sono sempre più penalizzanti (l’età media della popolazione italiana è sempre aumentata nel tempo, con eccezione del Covid che ne ha provocato – primo e unico caso nella storia moderna – un abbassamento).
La previdenza complementare: l’importanza di integrare la pensione pubblica
Le forme pensionistiche complementari sono uno strumento di risparmio previdenziale volontario volto a sopperire alla diminuzione di pensione pubblica dovuta alle riforme Dini e poi Fornero. In Italia, le forme pensionistiche complementari possono essere di tipo chiuso (destinate solo a una categoria di lavoratori, ad es. per cui si applica un certo CCNL, o che lavorano per una determinata azienda) oppure aperto (può aderirvi chiunque, e possono essere istituiti da varie forme di istituzione finanziarie: banche, assicurazioni, SIM ossia società di intermediazione mobiliare).
Il contributo che è necessario versare in un fondo pensione privato per ottenere una certa rendita prestabilita dipende da vari fattori, tra cui l'età del sottoscrittore, l'importo dei contributi periodici e la durata del periodo di accumulo. In genere, i fondi pensione offrono diverse opzioni di investimento e rendimento, quindi il risultato finale può variare a seconda delle scelte fatte dal sottoscrittore.
Gli importi contributivi possono essere decisi dal sottoscrittore non solo in base all’integrazione pensionistica che si desidera ottenere (sono disponibili diversi simulatori, che si basano sulle regole e le ipotesi dettate dalla COVIP, l’organismo di vigilanza sulle forme pensionistiche complementari), ma anche in base alle proprie possibilità finanziarie.
Va tenuto conto che maggiori contributi durante la vita lavorativa portano a una maggiore rendita pensionistica in futuro, e quindi meglio partire al più presto, anche con piccoli versamenti, che rimandare la scelta. Si tenga altresì conto che i lavoratori dipendenti privati possono conferire alle forme di previdenza complementare anche il proprio TFR.
Non vanno infine dimenticati i benefici fiscali che il legislatore riserva alle forme pensionistiche complementari:
1. Beneficio fiscale in fase di contribuzione: quanto versato può infatti essere dedotto fiscalmente, sino ad un massimo di 5.164,57 euro all’anno (i “vecchi” 10 milioni). Dedurre significa abbattere appunto l’imponibile di quanto versato, per cui la deduzione fiscale dei fondi pensione è più conveniente della detrazione fiscale (applicata ad es. alle spese sanitarie): mentre quest’ultima è fissa (19%) e prevede massimali spesso bassi, la deduzione fiscale è legata alle aliquote IRPEF. Nel peggiore dei casi, quindi, la deduzione è pari al 23% di quanto versato, nel migliore si arriva al 43% di quanto versato. Per le vigenti aliquite IRPEF, vedasi qui: https://www.agenziaentrate.gov.it/portale/imposta-sul-reddito-delle-persone-fisiche-irpef-/aliquote-e-calcolo-dell-irpef
2. Beneficio sulla tassazione dei rendimenti: i rendimenti delle forme pensionistiche complementari sono tassati al 20% (aliquota inferiore al 26% applicato alle altre forme di investimento, fatta eccezione dei titoli di Stato).
3. Beneficio in fase di erogazione delle prestazioni: qui è bene precisare sin da subito che, se non vengono dedotti, i versamenti non scontano alcuna tassazione nel momento della percezione della prestazione, esattamente come qualsiasi altra forma di investimento.
Riguardo invece ai contributi dedotti (vedasi punto 1.), essi sconteranno al momento del pagamento della prestazione:
• nel peggiore dei casi, una tassazione del 23% (anticipazioni per acquisto prima casa per sé stessi o per i figli, anticipazione libera senza giustificazione, riscatto parziale o totale per perdita dell’attività lavorativa)
• nel migliore dei casi (ciò che non viene richiesto per anticipazione o riscatto parziale), la tassazione è molto vantaggiosa: si va da un 9% (contribuzione continuativa a fondi pensione per oltre 35 anni), fino ad un massimo del 15% (contribuzione continuativa a fondi pensione sino a 15 anni). Per chi va in pensione integrativa con una contribuzione tra i 15 e i 35 anni, dovrà togliere al 15% uno 0,35% per ogni anno aggiuntivo di contribuzione sino al 35° (da tale anno in avanti, la tassazione resta fissa al 9%).
Considerati, come visto, l’importanza di costruirsi una pensione complementare, e di iniziare a farlo il prima possibile onde conseguire un’integrazione maggiore della pensione pubblica, ma allo stesso tempo la difficoltà delle regole applicabili alla materia, il consiglio è quello di affidarsi a un consulente finanziario che abbia specifiche competenze in materia previdenziale.
Su di me: laureato nel 2001 in Statistica attuariale con indirizzo finanziario presso l’Università La Sapienza di Roma, ho discusso una tesi dal titolo “L’applicazione dell’Asset Liability Management ai fondi pensione”, conseguendo la votazione di 110 su 110.
Responsabile dal 2006 al 2009 dell’Ufficio Previdenza Complementare di una delle maggiori banche italiane, ho partecipato alla diffusione delle forme ad adesione collettiva proposte da tale banca, partecipando attivamente a tavoli di relazioni industriali e sindacali di società che successivamente hanno adottato tali forme all’interno dell’azienda.