Si tratta di cifre preoccupanti per qualsiasi imprenditore, magari in là con gli anni, convinto di poter tranquillamente passare il timone della propria azienda a figli e nipoti senza rischiare di distruggerla.
E’ così aumentata la consapevolezza dei rischi connessi ad una successione non programmata: alla morte dell’imprenditore, infatti, l’assenza di una pianificazione strategica del processo ben potrebbe determinare la paralisi dell’attività o addirittura il suo smembramento laddove gli eredi non intendano o non siano in grado di seguire le orme del padre.
I figli del fondatore, per esempio, potrebbero avere intrapreso percorsi di carriera totalmente differenti, oppure versare in condizioni psicofisiche non adatte alla gestione dell’azione (si pensi alla nefasta ipotesi di abuso di alcool o sostanza stupefacenti). In un simile scenario, è facile immaginare che l’apertura della successione generi non pochi problemi dal punto di vista della continuità aziendale.
È presumibile, infatti, che a causa di dissidi interni gli eredi non trovino un accordo necessario alla prosecuzione dell’impresa, finendo per dismettere separatamente le quote di partecipazione così ereditate e ad un prezzo certamente inferiore a quello ritraibile in caso di cessione unitaria. Con conseguente smembramento dell’impresa, frutto del duro lavoro del suo fondatore, e del suo valore.
In quest’ottica, dunque, la gestione del passaggio generazionale non è solo una questione di passaggio del capitale sociale ma, altresì, di passaggio della governance dalla generazione presente a quella emergente, al fine di garantire la continuità dell’azienda.
Il ricambio, poi, non riguarda solo la successione nel vertice dell’impresa ma è spesso condizionato da dinamiche relazionali e familiari; lo sanno bene gli stakeholders che operano in Italia, dove il tessuto produttivo è per lo più rappresentato da realtà di piccole e medie dimensioni principalmente a conduzione familiare Di talché, prepararne le basi è non solo opportuno ma assolutamente necessario.
Ciò, specie considerando che con la molteplicità di strumenti messi a disposizione dall’ordinamento giuridico, le ragioni che tradizionalmente portano l’imprenditore a posticipare il più possibile la programmazione del futuro possono essere superate in maniera del tutto lecita.
L’esperienza professionale insegna che sono due sono le ragioni che solitamente frenano gli imprenditori nella pianificazione del passaggio. La prima, esemplificativamente, consistente nella volontà di conservare il controllo dell’azienda fino agli ultimi giorni di vita. La seconda, di evitare o quanto meno posticipare il più possibile gli esborsi economici e fiscali sottesi all’operazione.
Ebbene, in questo senso, l’assistenza di un valido professionista può diventare determinante per le sorti dell’impresa.
Determinante per fornire al cliente gli strumenti per una scelta consapevole. Determinante per rappresentare validamente le alternative tra cui potrebbe scegliere. Determinante per individuare, sulla base della specifica situazione individuale, familiare e societaria, il veicolo o la combinazione di veicoli idonei a soddisfarne le esigenze nel modo più efficace possibile dal punto di vista fiscale e, allo stesso tempo, perfettamente lecito da quello giuridico.
Prendiamo ad esempio la gran parte delle imprese familiari italiane, sorte nel periodo del boom economico tra gli anni ’50 e ’60. Queste sono attualmente partecipate, in parti uguali, dai figli dei fondatori. Il passaggio dell’azienda alla terza generazione potrebbe risultare problematico.
In effetti, il presumibile incremento numerico della compagine sociale e la sua conseguente frammentazione potrebbe, con ogni probabilità, impattare negativamente sulle scelte gestionali e sulla stessa linea operativa e strategica della società, compromettendone il regolare funzionamento.
Inoltre, ponendo che la seconda generazione del fondatore sia composta da tre figli, ognuno titolare di una partecipazione del 33,33% del capitale sociale, il trasferimento delle partecipazioni alla terza generazione sconterebbe l’imposta di donazione, non integrando le relative partecipazioni il controllo richiesto dalla disposizione esentativa di cui all’art. 3, comma 4-ter, del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 (salva l’applicazione delle franchigie).
Eppure, in un simile scenario un’attenta pianificazione del passaggio generazionale potrebbe fare la differenza, da un lato evitando la frammentazione della governance e, dall’altro, assicurando l’ottimizzazione del carico fiscale.
Le partecipazioni dei soci della seconda generazione, infatti, potrebbero essere conferite in una Newco in regime di realizzo controllato ex. art. 177, comma 2, del TUIR e, dunque, senza l’emersione di plusvalenze tassabili, creando le condizioni per attuare il trasferimento del controllo del Gruppo.
I tre soci potrebbero, ad esempio, ricevere in cambio il 100% delle quote della Newco in comunione tra loro, procedere alla nomina di un rappresentante comune e disciplinare il successivo trasferimento alla terza generazione – in esenzione da imposta di successione ai sensi dell’art. 3, comma 4-ter, del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346 – mediante un patto di famiglia o un trust, riservandosi l’usufrutto vitalizio sulle quote nonché anche i restanti diritti patrimoniali, ad eccezione, però, dei diritti di voto che spetterebbero esclusivamente ai beneficiari in comunione.
Il tutto, senza che sussista alcun pericolo di contestazione d’abuso ad opera dell’Amministrazione finanziaria. Non a caso, la stessa Agenzia delle Entrate ha avuto cura di chiarire come le suddette pianificazioni risultino pienamente legittime ancorché evidentemente finalizzate all’utilizzo del regime di esenzione da imposta di successione e donazione di cui all’art. 3, comma 4-ter, del D.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346.