La pandemia ha dato una forte accelerata a questa tendenza determinando un’importante battuta d’arresto sia per gli investimenti che per i consumi e, attualmente, il risparmio degli Italiani ammonta a circa 2.000 miliardi di euro.
Ma conviene, in effetti, mantenere una forte liquidità sul proprio conto corrente? In via del tutto generale, la risposta è no.
Da diversi anni, ormai, le banche non offrono più interessi sui conti correnti e gli strumenti di deposito generici assicurano dei rendimenti molto limitati.
Insomma, come si sente dire da più parti, la liquidità presente sui conti correnti non solo non rende affatto, ma è erosa ogni anno da una vera e propria “tassa occulta”, costituita dall’inflazione.
Come scrivevo qui sopra, non c’è alcun dubbio che ciò sia vero in via generale.
Se però spingiamo le nostre riflessioni un po’ oltre, giungiamo alla conclusione che la liquidità sul conto corrente può essere, a seconda delle circostanze, “il minore dei mali”.
L’esperienza avuta la scorsa settimana nell’analizzare 3 asset allocation di potenziali clienti, non fa altro che confermare come la maggior parte dei portafogli dei clienti privati delle maggiori banche del nostro Paese hanno un minimo comun denominatore che possiamo riassumere nell’espressione “della casa”.
Con questa espressione intendo indicare tutte quelle opzioni d’investimento che, regolarmente, vengono proposte dalla maggior parte delle banche ai propri clienti:
fondi, polizze unit linked con costi annuali del 4% circa, certificati con il 4/5% di front fee e altri strumenti simili, tutti, rigorosamente, facenti capo allo stesso istituto o al gruppo bancario con cui il cliente intrattiene rapporti.
In genere, i clienti accolgono volentieri queste proposte, per la fiducia che comunque ripongono nella propria banca e nel consulente con cui si interfacciano, dando per scontato che quel “senza commissioni d’ingresso”, pronunciato dall’impiegato di turno, significhi un bel “non costa niente…. È tutto gratis”.
In realtà, si tratta il più delle volte di una vera e propria accozzaglia di prodotti finanziari senza alcun filo conduttore e per di più a costi spesso esorbitanti.
In questo senso, se l’asset allocation prevista deve esplicitarsi in operazioni simili, paradossalmente, è meglio tenere i soldi fermi sul conto: si tratta, appunto, del male minore.
Qual è il motivo di questa situazione?
La maggior parte degli istituti di credito esercita una pressione commerciale molto forte sui propri dipendenti, incentivandoli a vendere il numero più alto possibile di prodotti “della casa”, senza tenere conto delle esigenze dei singoli clienti, con un atteggiamento che equipara tutti i clienti tra loro.
Si tratta di soluzioni standardizzate e, per così dire, “piatte”, che hanno un solo unico vantaggio, ovvero quello di far incamerare alle banche stesse laute commissioni.
Usando una metafora, è come se la liquidità fosse un mal di testa per il quale è sufficiente prendere un’aspirina, mentre un portafoglio simile ad un’accozzaglia di investimenti senza senso può essere paragonato a qualcosa di più serio, ad un vero e proprio virus subdolo per il quale è necessario stabilire una cura complessa ed efficace, in grado di debellarlo.
È su questi virus che l’attenzione del consulente deve concentrarsi: è da qui che deve partire, non dalla liquidità. Spetta a noi consulenti concentrare la nostra attenzione e i nostri sforzi su questi elementi.
È necessario che un buon consulente, capace di motivare i propri clienti ad investire per obiettivi, metta in pratica un protocollo sensato, che rispecchi le esigenze del cliente e lo invoglino non solo a mobilitare la liquidità accumulatasi sul suo conto corrente, ma anche, e soprattutto, a rivedere con un profondo checkup l’attuale portafoglio.
Vista l’importanza assoluta del tema, riassumo questo atteggiamento win-win in alcuni passaggi fondamentali:
– È necessario ascoltare le esigenze del cliente, quelle che lui stesso si sente di esplicitare;
– In seguito, è raccomandabile far emergere le esigenze latenti del cliente stesso, quelle che non è in grado di esplicitare senza il contributo di un esperto del settore;
– Dopodiché, si può passare alla costituzione di uno o più portafogli per obiettivo d’investimento;
– Le possibili turbolenze che potranno presentarsi durante tutto il percorso dell’investimento vanno preventivate in anticipo, al fine di predisporre il relativo manuale di comportamento;
– Il consulente dovrà essere sempre al fianco del cliente, assicurando assistenza periodica e presenza attiva, soprattutto in caso di turbolenze sui mercati: solo in questo modo, il cliente, ben informato sul percorso da intraprendere, modificherà la sua percezione del rischio e si sentirà più sicuro nel mondo degli investimenti.
Non è un compito facile, me ne rendo conto: l’Italia è infatti l’ultimo paese tra quelli del G20 per conoscenze finanziarie; i dati di Banca d’Italia riportano che ben 18,5 milioni di famiglie non utilizzano alcuno strumento finanziario.
Moltissimi sono inoltre gli Italiani che dichiarano di non fidarsi degli intermediari finanziari.
Si tratta, secondo me, di una situazione facilmente ribaltabile, a condizione che tutti i consulenti finanziari che abitualmente si interfacciano con i clienti comincino ad operare spostando l’ottica della propria azione verso il cliente e le sue esigenze, proponendo soluzioni su misura e uscendo da un’ottica che mette al centro il profitto degli istituti di credito, a discapito di quelli del cliente.
È ora di rimboccarci le maniche e fare la cosa giusta, che poi è la migliore per tutti.