C’è una carestia globale in corso, ed è di semiconduttori

Oggi utilizzati nelle comunicazioni, nell’industria dei pc, degli elettrodomestici e dell’automotive: l’uso massiccio dei semiconduttori è un segnale forte per la crescita del settore nel lungo periodo. Tuttavia, un mercato a collo di bottiglia ne mette a rischio il successo

È in corso una carestia globale, ma non di cibo. Bensì, di semiconduttori. Secondo un rapporto di Foxconn, multinazionale taiwanese tra i principali fornitori di componenti alle aziende tech, la domanda di semiconduttori nel mondo è dal 10 al 30% superiore rispetto all’attuale produzione. Una richiesta talmente elevata da rallentare la produzione globale di chip, innescando una crisi che, secondo le stime, potrebbe non rientrare alla normalità prima della metà del 2022. A monte, un mercato a (strettissimo) collo di bottiglia che vede il 91% della produzione mondiale di chip in Asia, con il 63% proprio a Taiwan. Numeri da leadership, quelli dell’Asia per i chip, che il presidente degli Stati Uniti Joe Biden è determinato a ridurre: 50 miliardi di dollari del piano infrastrutturale da 2 mila miliardi saranno infatti dedicati a finanziamenti per svilupparne la produzione e il mercato domestico. Anche l’Europa segue in quanto a volontà, con l’obiettivo di realizzare almeno un quinto di tutti i semiconduttori del mondo entro il 2030.

La corsa ai semiconduttori

Anni ’60, California. Gordon Moore, ricercatore e co-fondatore della Intel, osserva che il numero di transistor capace di entrare all’interno di un circuito integrato raddoppiava ogni 18 mesi, 24 al massimo. Il significato? Allo stesso (o addirittura minore) costo di produzione la potenza di calcolo di un processore aumentava. Bastava solo essere pazienti e continuare sempre ad innovare. Con queste premesse, affermava Moore, non c’era ragione di dubitare che i progressi nel campo potessero solo che incrementare. E aveva ragione.

Una rivoluzione sostenuta dai profitti

La velocità di questa legge “aspirazionale”, più che vera e propria legge della fisica, ha consentito di aumentare sensibilmente la velocità del progresso che ha reso possibile la rivoluzione digitale tra gli anni Ottanta e Novanta, spianando la strada ai telefoni cellulare, alle automobili a guida autonoma e ai dispositivi per l’health care.
“Dipende tutto da quanto le aziende decidono di investire in ricerca e sviluppo per ridurre la grandezza dei transistor”, ovvero i dispositivi a semiconduttore largamente usati nell’elettronica analogica e capaci di amplificare la potenza di un segnale elettrico, spiega Isaac Sudit, Equity investment analyst di Capital Group, che prima di approdare nell’azienda di investimenti americana è stato per anni un ricercatore sui semiconduttori e che da giovane lavorò proprio con Gordon Moore. “Ora le aziende investono per una ragione: un ritorno nei loro investimenti. Fatalità, l’economia di questo settore si è evoluta in modo tale da generare profitti sufficienti a mantenere un ritmo di innovazione elevato. Alla fine, quella di Moore è diventata una profezia che si è auto avverata”.

Investire nei semiconduttori

Oggi, è possibile trovare semiconduttori ovunque nella nostra quotidianità. Tanto che le stime per il 2025 li vedono utilizzati nelle comunicazioni al 34%, nell’industria dei pc al 32%, dell’elettronica al 14%, dell’automotive all’11%, fino all’industria più in generale al 9%. Negli ultimi anni sono state in particolare due le rivoluzioni tecnologiche che hanno spinto l’industria dei semiconduttori: il cloud computing e l’intelligenza artificiale.
Cosa significa questo per gli investitori? “Chiaramente, l’uso massiccio dei semiconduttori è un segnale forte per il successo del settore nel lungo periodo. Con quasi 60 anni d’età, questa industria è ancora relativamente giovane: io stesso ho avuto il piacere di incontrare la maggior parte di chi guidò la fase iniziale di crescita esponenziale”, racconta Sudit. “Ma ho anche avuto modo di incontrare una nuova generazione di leader, molti dei quali erano veri e propri visionari con forti capacità imprenditoriali”.

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