Banche, sarà un nuovo 2008? Non è necessario spaventarsi

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I recenti fallimenti bancari oltreoceano, uniti a quelli di Credit Suisse, hanno innescato negli investitori il timore di essere ricaduti nella crisi del 2008. Ma, secondo T. Rowe Price, ci troviamo in una situazione ben diversa. Vediamo perché

Appena si sente aria di fallimento bancario, la prima preoccupazione che viene agli investitori è quella di essere ricaduti in una spirale simile a quella che portò alla crisi finanziaria del 2008. Per evitare inutili allarmismi va subito sottolineato che dopo la grande crisi le normative europee e americane hanno posto le banche sotto ben più rigorose strutture di controllo.

Tuttavia, i recenti fallimenti della Silicon Valley Bank (SVB) e della Signature Bank, a stretto giro seguite dal salvataggio di Credit Suisse, acquisita da Ubs sotto la regia della Swiss National Bank, hanno indotto gli investitori a mettersi sull’attenti, accrescendo i timori di una più ampia emergenza finanziaria e, di conseguenza a iniziare la ricerca di altre possibili faglie nel sistema.

Gli esperti di T. Rowe Price, rassicurano, sottolineando che non sarà come il 2008. In generale, la maggior parte dei fallimenti bancari è causata da problemi nel portafoglio prestiti di una banca, oppure da una crisi di liquidità. E, se a capo della crisi finanziaria globale, “i gravi problemi nel portafoglio prestiti delle banche, in particolare per quanto riguarda la qualità creditizia dei prestiti immobiliari, innescarono un’ondata di fallimenti bancari”, dietro alle crisi bancarie più recenti vi è un problema di liquidità. Basti pensare che, in un solo giorno, la SVB si è vista arrivare richieste dal 25% dei suoi clienti per prelevare i propri fondi, per una domanda totale di ben 42 miliardi di dollari.

Tutta colpa della Fed?

Senza dubbio l’inasprimento della politica monetaria della Federal Reserve ha avuto il suo impatto: i rapidi aumenti dei tassi e la stretta quantitativa hanno aumentato i rendimenti disponibili sugli strumenti di investimento a breve termine, come le obbligazioni, incentivando gli investitori a prelevare i depositi bancari. A questo però va anche aggiunto che gran parte delle finanze sulle quali si reggeva la SVB arrivavano dal mondo delle startup tech e biotech, e con gli effetti della guerra e della pandemia ancora da scontare, il settore delle nuove tecnologie si è visto obbligato a frenare, dopo aver bruciato la maggioranza dei fondi, chiedendo dunque di prelevare i pochi rimanenti.

Un mondo interconnesso, vale anche per le banche?

Dopo il crollo della SVB, potrebbe sembrare si sia dato il via a un domino che porterà al fallimento di altre banche. Ma, al contrario di quello che si potrebbe supporre, la recente pressione su Credit Suisse non è direttamente collegata alla sfortunata sorte delle banche statunitensi e non si può di certo definire un fulmine a ciel sereno, viste le crepe che la banca di Zurigo aveva iniziato ad accumulare da qualche anno a questa parte.
Anche se la crisi della banca svizzera non dipende direttamente da quelle statunitensi, il sentiment di contagio del settore bancario è partito.

Nonostante non si possa parlare di effetto domino, potrebbe essere rischioso non considerare e analizzare quali altre banche regionali statunitensi potrebbero essere vulnerabili a una crisi di liquidità. “In particolare, siamo preoccupati per le banche che hanno sia un’alta percentuale di depositi superiori a 250 mila dollari, non assicurati dalla Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), sia grandi concentrazioni di depositi da clienti di settori specifici”, spiega Stephon Jackson, director of associate analyst programs di T. Rowe Price.

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In conclusione

Possiamo dire di essere entrati in una spirale simile a quella del 2008? Gli esperti di T. Rowe Price scartano questo scenario: “Non vediamo alcun fondamentale impatto o contagio dei recenti fallimenti bancari sui fondi comuni del mercato monetario”. Infatti oltre la metà dei prestiti bancari negli Stati Uniti arriva da banche con un patrimonio inferiore ai 250 miliardi dollari, pertanto assicurati dalla FDIC. Questo traspare anche dal fatto che la Fed abbia deciso di continuare a controllare l’inflazione alzando i suoi tassi di interesse. Inoltre, per sopperire al fabbisogno di liquidità nel breve termine, la banca centrale statunitense ha dato il via a un nuovo programma di finanziamento che permette alle banche di prendere fondi in prestito dalla Fed, fornendo come garanzia i Treasury e altri iutoli di debito pubblico.

Forse è ancora troppo presto per tirare un sospiro di sollievo, ma se l’obiettivo è quello di massimizzare il rischio/rendimento, il consiglio di Jackson è quello di affidarsi a banche regionali con bilanci solidi e una buona liquidità.

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