Dall’olio di palma non si sfugge, ma dalla deforestazione sì

Il viaggio verso la sostenibilità nella produzione di olio di palma presenta molte sfide da affrontare, ma investitori e partner possono aiutare le aziende disposte a cambiare in meglio

Dopo anni di “demonizzazione” e denigrazione, l’olio di palma potrebbe tornare sulle tavole, anche degli scettici. La diffusione di notizie (non sempre verificate) sui possibili risvolti negativi per la salute dati da un consumo eccessivo hanno indotto l’industria alimentare e i consumatori a sostituirlo con altri olii vegetali, quello di girasole in primis. La guerra che imperversa in Europa, tuttavia, vede come attori protagonisti i due principali esportatori di olio di girasole al mondo. Secondo l’Observatory of Economic Complexity (Oec), infatti, l’Ucraina è responsabile fino al 46% della sua produzione, seguita dalla Russia, che esporta il 23% della fornitura mondiale. Il possibile ritorno all’olio di palma solleva però diversi interrogativi riguardo la sostenibilità dell’intera catena di produzione. “L’olio di palma è un ingrediente contenuto in quasi la metà dei prodotti confezionati che si trovano nei supermercati, dalla pizza al cioccolato, dallo shampoo al dentifricio” afferma Peter van der Werf, Senior Manager for Engagement di Robeco. “Eppure, in pochi si rendono conto che la sua produzione può avere un costo enorme per l’ambiente e per le persone che lo raccolgono”.

Olio di palma, una produzione discussa

La coltivazione della palma da olio è una delle principali cause della deforestazione, talvolta di foreste pluviali incontaminate. In alcune zone dell’Asia tropicale e dell’America centrale e meridionale, ad esempio, i produttori sono autorizzati ad abbattere gli alberi per soddisfare la crescente domanda, determinata anche dalla convenienza dell’olio di palma rispetto ad altri olii in termini di quantità prodotta per ettaro e di bisogno ridotto di fertilizzanti. “Parte del problema si verifica perché la produzione di olio di palma è altamente frammentata in paesi come l’Indonesia, dove il 40% del raccolto proviene da due gruppi di piccoli proprietari” spiega l’esperto. “Il primo gruppo è composto da piccoli agricoltori organizzati che vendono il loro olio di palma agli impianti di lavorazione delle grandi società quotate in borsa. Il secondo vede invece i piccoli proprietari indipendenti vendere a chiunque paghi il prezzo migliore”. Per questi produttori, l’olio di palma rappresenta un mezzo importante per guadagnarsi da vivere e avere accesso alle catene di fornitura globale. “Tuttavia, la loro piccola scala rende difficile pagare i costi di certificazione, che invece non costituiscono un problema per le grandi compagnie industriali”. L’esperto sottolinea come in questo modo l’importanza di riconoscere il grande valore dell’olio di palma per queste economie emergenti e di trovare un equilibrio tra la sostenibilità e la tanto necessaria attività economica in tali mercati.

Il ruolo degli stakeholder 

Per alcuni investitori, le implicazioni ambientali sono una ragione sufficiente per eliminare del tutto le aziende produttrici di olio di palma dall’universo investibile. “Questo porta a chiedersi se l’engagement possa contribuire alla trasformazione del settore” aggiunge van der Werf. “Crediamo che sia possibile, a patto che si osservino regole e principi chiari. Ci aspettiamo che le aziende usino la loro influenza per sostenere questi gruppi di piccoli proprietari, aiutandoli ad organizzarsi e a farsi certificare, oltre che per fare pressione sui governi affinché applichino standard più severi e sistemi di gestione del rischio più efficienti”. Robeco ha discusso di questioni di sostenibilità con i produttori di olio di palma in Malesia e Indonesia per anni. Nel 2019, ha richiesto a tutte le società partecipate di diventare membri della Roundtable of Sustainable Palm Oil (Rspo, un’organizzazione agricola nata nel 2004 con l’obiettivo di promuovere la crescita e l’uso di prodotti di olio di palma sostenibile attraverso standard globali credibili e il coinvolgimento delle parti interessate) e di certificare almeno il 20% delle proprie piantagioni, ma anche di prepararsi a rigorose tabelle di marcia per arrivare al 100%. Dal 1° gennaio di quest’anno, la soglia per la certificazione Rspo è salita al 50%, con un chiaro percorso che punta ad avere almeno l’80% delle piantagioni certificate entro la fine del 2024. Per quelle società che si trovano appena sopra il 20% indicato, Robeco ha istituito un programma strutturato di engagement rafforzato per aiutarle a raggiungere l’obiettivo di certificazione successivo. Per assicurare questa garanzia di sostenibilità in graduale crescita, la Rspo richiede che ogni azienda membro abbia un piano scadenzato per passare alla certificazione al 100% entro cinque anni dall’adesione e dall’inizio del processo di certificazione.

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