In un mondo che cambia in maniera vorticosa, i parametri che si usavano per misurare il valore dell’economia sono destinati a essere soppiantati da nuovi indicatori
Se ne parla da decenni, ma questa sembra la svolta decisiva. Esiste, infatti, un consenso intorno alla possibile alternativa: il benessere. Esso, tuttavia, si presta ancora a qualche distorsione
Da allora, economisti e statistici, a fianco di scienziati naturali, hanno capitale sociale, che riflette la capacità delle comunità o dei Paesi di agire collettivamente, e il valore che viene creato in seno alle famiglie. Il covid-19 ha evidenziato quanto sia cruciale il lavoro non retribuito delle famiglie per la salute economica di un Paese. Per questo il Bureau of Labor Statistics Usa intende sviluppare un concetto più completo di qualità della vita che includa il valore di tale attività. Misure aggregate come queste possono essere utili per guidare decisioni politiche che tengano conto
dell’economia familiare e possono indirizzare le decisioni delle aziende, il cui supporto sarà essenziale per abilitare il cambiamento.
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Un certo numero di governi, dalla Nuova Zelanda alla Scozia, ha recentemente adottato quadri politici esplicitamente focalizzati sul il benessere. Tuttavia questo concetto non è univoco, perché dipende da molte variabili. Tuttavia, esiste un ampio corpus di ricerche in psicologia ed economia su come misurarlo e su come analizzare i fattori che lo influenzano.
Spesso, la misurazione comporta il rilevamento della soddisfazione delle persone per la propria vita o del loro livello di ansia. Tali indicatori, però, hanno dei limiti. Per esempio, mentre i legami tra benessere e fattori individuati dall’analisi econometrica – come essere occupati o in buona salute mentale – sono intuitivi, i nessi causali sono ben più complessi e compiuto notevoli passi avanti nello sviluppo di metriche di prosperità rigorose, che inglobino anche il valore e la protezione delle risorse naturali. L’idea centrale è quella di creare un bilancio nazionale completo per dimostrare che il progresso economico odierno è illusorio se va a scapito del tenore di vita futuro. A marzo di quest’anno si è raggiunto un ulteriore traguardo: le Nazioni Unite hanno approvato uno standard statistico relativo ai servizi che la natura fornisce all’economia.
Poco prima il ministero del Tesoro del Regno Unito aveva pubblicato un documento redatto dall’economista Partha Dasgupta dell’Università di Cambridge in cui si descriveva come integrare la natura in generale, e la biodiversità in particolare, nell’analisi economica. È chiaro che qualsiasi indicatore di successo economico che voglia avere valore predittivo, debba includere la sostenibilità.
I prossimi passi consisteranno nell’incorporare altre variabili: il non del tutto chiari. Una persona depressa può trarre beneficio dalla terapia, ma un alloggio dignitoso potrebbe essere ancora più efficace. Statistiche aggregate top-down potrebbero essere dunque insufficienti per facilitare il processo decisionale della politica e delle aziende. E allora sarà necessario un livello di dettaglio più granulare.
Un recente studio accademico in Uk ha analizzato i bisogni di persone in condizioni di povertà, rilevando come variabili immateriali come l’autonomia o avere un obiettivo, vadano di pari passo con le necessità materiali di base, compresa la salute. Insomma, è importante tenere presente che il concetto di benessere è molto più ricco della maggior parte degli altri indicatori economici. Del resto, gli approcci globali di misurazione della ricchezza e del benessere sono complementari: le risorse indicate dal primo forniscono i mezzi per raggiungere il secondo. Abbandonare il Pil come principale indicatore di prosperità è sempre stato impossibile in assenza di un ampio accordo su quale potesse essere l’alternativa, che oggi sembra intravedersi. Ci vorranno ancora anni per sviluppare un quadro sofisticato e ben integrato del benessere, che possa sostituire veramente il Pil. Ma la direzione del cambiamento è chiara.
Articolo a cura di Diane Coyle, Bennett professor of Public Policy presso la University of Cambridge
Questo articolo è comparso per la prima volta su Project Syndicate e ripeso, in seguito, nel numero di gennaio del magazine We Wealth