Inflazione: dove preoccupa e dove non. L’analisi da est a ovest

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Se negli Stati Uniti e nell’Eurozona le pressioni inflattive rimangono elevate costringendo le banche centrali ad agire con mano ferma, la situazione in Asia risulta decisamente differente. L’andamento dei prezzi tra le principali economie mondiali

Negli Stati Uniti non si vedevano dati simili dal 1986. Nell’Eurozona, dall’inizio delle registrazioni, datate 1997. Si tratta del balzo dell’inflazione, un fenomeno che sta coinvolgendo le principali economie globali e sul cui persistere o meno non vi sono ancora risposte certe. I fattori responsabili a livello globale? Le strozzature alla catena di approvvigionamento innescate dalla pandemia, le pressioni salariali, ma anche i recenti shock energetici e alimentari causati dal conflitto in Ucraina. “Condizionati dalla lunga storia recente di bassa inflazione, disinflazione e persino di timori di deflazione, gli economisti si sono ritrovati spiazzati” affermano gli esperti di PGIM, che hanno da poco ultimato e pubblicato un approfondimento in collaborazione con Reuters. La situazione sembra aver sorpreso anche i banchieri centrali che, “preoccupati di evitare che le spirali di aumento dei prezzi possano consolidarsi, […] stanno aumentando i tassi in maniera piuttosto aggressiva”, con il rischio di indebolire la crescita economica

In questo contesto, come possono comportarsi gli investitori? Quali i fattori da tenere in considerazione? Secondo PGIM, una discriminante è da ritrovarsi nella zona geografica: a differenti aree corrispondono infatti diverse dinamiche cui prestare attenzione. Ecco perché.

Usa: il mercato del lavoro e le preoccupazioni sul debito

Negli Stati Uniti, il dibattito sull’inflazione è ancora aperto. I prezzi al consumo statunitensi hanno infatti segnato un +8,3% su base annua nel mese di agosto, superando le aspettative degli analisti che prevedevano un’inflazione pari all’8,1%. Nonostante vi sia stato un rallentamento rispetto a giugno (9,1%) e a luglio (8,5%), la Federal Reserve mantiene ancora la stretta sui tassi, in vista della prossima riunione del Federal open market committee (Fomc) prevista per il 21 settembre. Nel frattempo, i dati relativi al mercato del lavoro rimangono solidi: ad agosto sono stati creati 315.000 nuovi posti di lavoro e il livello di disoccupazione rimane sui minimi, intorno al 3,7%, mentre il sondaggio di luglio sulle diponibilità di posti di lavoro e sulla rotazione (Jobs opening and labor turnover summary, Jolts) ha rivelato che 4,2 milioni di persone ha lasciato volontariamente il proprio lavoro. Le conseguenze di questi dati sul rialzo dei prezzi, secondo gli esperti di PGIM, sono problematiche: “La tensione del mercato del lavoro statunitense sta esercitando pressione al rialzo sull’inflazione salariale, che storicamente è stata associata a un rischio sostanziale di recessione nei successivi uno o due anni. Di conseguenza, più l’inflazione salariale diventa radicata, maggiore sarà la pressione sulla Fed affinché continui ad aumentare i tassi per rallentare l’economia e arrestare queste pressioni”.

La Federal Reserve, tuttavia, può aumentare i tassi solo entro un certo limite, altrimenti renderebbe troppo oneroso il finanziamento del deficit federale. Nel 2021, il debito pubblico del paese è stato il secondo più alto della storia, con 2.800 miliardi di dollari; con i tassi sulle obbligazioni del Tesoro Usa a 10 anni passati da meno del 2% a oltre il 3% nel 2022, ci si prospetta che il dato possa solo peggiorare.

Nell’Eurozona l’inflazione record riaccende i timori sull’euro

Anche nell’Eurozona la situazione desta preoccupazione. La guerra in Ucraina ha fatto accelerare vorticosamente i prezzi dell’energia e delle materie prime. Questo ha portato l’inflazione della zona euro a toccare livelli record, al 9,1% su base annua secondo la rilevazione Eurostat di agosto. Nella prospettiva che la Russia interrompa del tutto i flussi di gas, secondo gli esperti di PGIM “rimane poco da fare per impedire all’inflazione di continuare a salire nel 2022 e nel 2023”.

In risposta, la Banca Centrale Europea (Bce) sta procedendo verso un inasprimento della politica monetaria: il Consiglio direttivo, nella riunione dello scorso 8 settembre, ha infatti deciso di aumentare i tassi d’interesse di riferimento di 75 punti base, il maggior rialzo da quando è stata creata la moneta unica.

Per quanto riguarda il Regno Unito, a luglio l’indice dei prezzi al consumo ha toccato il 10,1%, il massimo degli ultimi 40 anni, per poi rallentare leggermente ad agosto (9,9%). “Gli economisti sostengono che la Brexit possa provocare un inasprimento dell’inflazione, diminuendo la flessibilità del mercato del lavoro e riducendo la produttività” continuano da PGIM.

In conclusione, “fino a quando non finirà la guerra che coinvolge la Russia, è probabile che l’inflazione in Europa rimanga elevata e le pressioni sulla zona euro e sulla Gran Bretagna della Brexit potrebbero persistere”.

Asia, porto sereno lontano dall’inflazione

Anche se in Asia si prevede un aumento dell’inflazione, la pressione sui prezzi risulta decisamente minore. Secondo l’Asian Development Bank, l’inflazione regionale dei paesi dell’Asia salirà al 3,7% nel 2022, per poi scendere al 3,1% nel 2023. D’altronde, qui è minore la dipendenza da quei prodotti alimentari, come il grano, i cui prezzi sono schizzati verso l’alto.

In Giappone, poi, “dopo anni di deflazione, attualmente non si registra praticamente nessuna trasmissione dell’inflazione nell’economia” continuano da PGIM. “Benché il Giappone sia esposto agli stessi aumenti dei prezzi delle materie prime di altri Paesi, per ora l’inflazione sta registrando un aumento molto limitato. In questo Paese la psicologia è diversa, dopo anni di prezzi in diminuzione: le aziende temono un contraccolpo qualora aumentassero i prezzi, mentre i lavoratori, dopo decenni di retribuzioni stagnanti, non osano chiedere salari più alti”. L’unico fattore che potrebbe scaldare i prezzi sarebbe la debolezza dello yen, arrivato sui minimi ventennali rispetto al dollaro.

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