Rafforzare le supply chain alimentari dopo la crisi ucraina

Il cibo è diventato più caro, ma il protezionismo non può essere una risposta a lungo termine alle vulnerabilità evidenziate dalla crisi ucraina, scrive LGIM

Che cosa significa, fra le altre cose, vivere in un mondo globalizzato? Quando le cose vanno bene, che i consumatori possono approfittare dell’efficienza produttiva di Paesi anche molto distanti da loro, pagando prezzi più bassi. Questo modello, però, si può inceppare. Il gas russo è diventato un esempio lampante. Quest’ultimo è più conveniente dell’alternativa liquefatta (Gnl) proveniente dagli Stati Uniti che, secondo una recente inchiesta del Sole 24 Ore, all’Italia costa almeno il 50% in più. La materializzazione di un conflitto con la Russia, da sempre messo in conto dagli Stati Uniti, ma spesso sottostimato dai leader europei, ha costretto a ripensare bruscamente le nostre fonti di approvvigionamento energetico. E così, ad esempio si torna a parlare dello sfruttamento dei giacimenti di gas disponibili nel territorio nazionale italiano.

Procurarsi prodotti attraverso modalità che, fino a quel momento, erano considerate meno efficienti sul piano economico ha fatto parlare di ritorno al protezionismo o, comunque, di arretramento della globalizzazione. Se si guarda poco al di là continente europeo, l’impatto della guerra in Ucraina rischia di avere conseguenze drammatiche soprattutto nell’approvvigionamento alimentare. A marzo l’Indice Fao dei prezzi dei prodotti alimentari è aumentato del 12,6% rispetto a febbraio, mentre l’Indice Fao dei prezzi dei cereali è aumentato del 24,9%; in entrambi i casi si è trattato del maggior aumento dal 1990. Per quali Paesi tutto questo diventa un grosso problema?

Egitto e Libano importano rispettivamente l’85 e l’81% de proprio grano dalla Russia e dall’Ucraina. Più in generale, vari Paesi del Nord Africa dipendono in larga misura dalle importazioni di alimenti: Algeria compra dall’estero il 75% del suo fabbisogno, il Marocco oltre il 50% per la parte relativa ai cereali e la Tunisia circa il 70% ha affermato l’Ispi.

La globalizzazione arretra, oggi, anche perché molti Paesi che producono alimenti si rifiutano di esportarli per sostenere i bisogni della propria popolazione. “Purtroppo, alcuni politici stanno adottando un approccio protezionistico a breve termine”, ha raccontato Alexander Burr, Esg policy lead di Legal & General IM (LGIM). “Il più grande esportatore di olio di palma al mondo, l’Indonesia, ha recentemente imposto un divieto generalizzato sulle esportazioni nel tentativo di ridurre l’impatto dell’aumento dei prezzi dei prodotti alimentari. L’Argentina sta bloccando le esportazioni di farina e olio di soia; l’Egitto sta vietando le esportazioni di farina, lenticchie e grano; il Marocco sta riducendo le esportazioni di pomodori in Europa. Moldavia, Ungheria e Serbia hanno limitato le vendite di alcune esportazioni di cereali”.

Improvvisamente, ci si rende conto che in una situazione di crisi la specializzazione delle economie, inserite negli scambi globali, si può rivelare una vulnerabilità. Secondo Burr, tuttavia, la risposta di lungo termine alla lezione della crisi ucraina non dovrebbe avere un approccio autarchico – condizione estrema nella quale ogni bisogno nazionale può essere soddisfatto senza importare dall’estero. E’ invece il momento “di rendere le catene di fornitura alimentare più resilienti”, ha affermato LGIM, indicando quattro possibili interventi:

1. diversificare la catena di approvvigionamento;
2. aumentare la produzione locale e diversificata;
3. abbandonare l’uso di fertilizzanti e pesticidi sempre più costosi e insostenibili attraverso metodi; di produzione biologica;
4. fornire incentivi per una maggiore produttività.

La comunità internazionale deve, inoltre, collaborare a livello multilaterale per ridurre al minimo l’impatto delle interruzioni della catena di approvvigionamento”, ha concluso Burr, “rafforzando il sistema in modo trasparente, prevedibile e basato su regole”.

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