Impatto transizione energetica sulle infrastrutture, quali trend?

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Non occorrono solo capitali pubblici e privati ma anche competenze per creare valore nel lungo termine. E investire in infrastrutture che ancora non esistono. Ecco tre settori a cui guardare con più interesse, secondo Goldman Sachs Asset Management

Si fa presto a dire transizione energetica. Ma che cosa vuol dire esattamente investire in questo ambito? Per Goldman Sachs Asset Management, vuol dire investire in tutto ciò che contribuisce al raggiungimento del net zero (azzeramento delle emissioni di anidride carbonica), compresa la generazione di energia rinnovabile, l’intera catena di ricarica dei veicoli elettrici, lo stoccaggio dell’energia, i combustibili sostenibili come l’idrogeno e il gas rinnovabile e, infine, la cattura del carbonio. Non solo. La transizione energetica si estende a ogni singolo sottosettore delle infrastrutture, dai trasporti e dalle utenze alle infrastrutture digitali e alla logistica e comprende anche la decarbonizzazione dei cosiddetti asset brownfield (ossia le attività già esistenti). Si tratta quindi di un ventaglio di opportunità eccezionalmente ampio. Individuare tempestivamente i trend che possono creare valore nel lungo periodo, grazie alla competenza e alla velocità di azione, può fare la differenza, secondo Philippe Camu, presidente e co-responsabile degli investimenti in infrastrutture di Goldman Sachs Asset Management.

Tre comparti da tenere sott’occhio

“La transizione energetica è un’opportunità da svariati trilioni di dollari per gli investitori in infrastrutture”, afferma Camu, che individua però tre particolari ambiti di maggior interesse in questo momento:

  1. Transizione dal motore a combustione interna ai veicoli elettrici, sia commerciali che privati. Il settore dei trasporti è attualmente responsabile del 22% delle emissioni globali di CO2. L’UE punta a 30 milioni di veicoli elettrici entro il 2030 e la sola Ford ha annunciato che investirà oltre 50 miliardi di dollari per produrre due milioni di veicoli elettrici nel 2026.
  2. Accumulo di energia. Con l’aumento della capacità rinnovabile cresce la necessità di stoccaggio per stabilizzare la rete elettrica e ridurre la dipendenza dai picchi di combustibili fossili.
  3. Idrogeno. La ricerca Goldman Sachs Carbonomics stima che l’idrogeno pulito potrebbe contribuire fino al 20% della decarbonizzazione globale. Nel 2019 sono stati prodotti 75 milioni di tonnellate di idrogeno verde che potrebbero diventare 520 milioni entro il 2050. Per far sì che ciò avvenga saranno necessari ingenti investimenti.

I rischi di mercato e della politica

Investire per facilitare una transizione spesso implica la costruzione di infrastrutture che non esistono ancora. Lo si è fatto prima con l’eolico, il solare e la biomassa, e oggi con lo stoccaggio dell’energia e l’idrogeno. Parte fondamentale di ogni processo di investimento è la valutazione dei rischi, a partire dal rischio di mercato che dipende dalla previsione delle dinamiche di domande e offerta e della curva di adozione. La valutazione dei costi di costruzione, poi, è fondamentale: sbagliare i calcoli e le stime in un momento di inflazione come questo può causare gravi danni. Come investitori in infrastrutture, è ance importante assicurarsi di non assumere anche il rischio tecnologico oltre a quello legato alle infrastrutture, investendo in tecnologie collaudate, senza farsi fuorviare dal potenziale di rendimento che caratterizza alcune nuove tecnologie e ricercando resilienza e caratteristiche difensive , avverte Camu. Non può essere trascurato infine, anche il rischio politico cioè che il sostegno governativo a certi investimenti possa avere tempi molto lunghi o addirittura cambiare nel tempo.

I capitali (pubblici e privati) non bastano, servono anche le competenze

Il ruolo degli investimenti privati per la decarbonizzazione, affiancati a quelli pubblici, è fondamentale. Secondo alcune stime di BloombergNEF, bisognerebbe investire a livello globale 4,7mila miliardi di dollari all’anno per i prossimi 22 anni se si ambisce a raggiungere l’obiettivo del net zero entro il 2050. Un ammontare che non può dipendere solo da capitali pubblici. Il settore privato può fornire la maggior parte di questo fabbisogno.

Ma non solo. Per investire nella transizione non basta il capitale, occorre fornire anche competenze per navigare agevolmente in contesti geopolitici complessi. La conoscenza delle prospettive macroeconomiche, ha sottolineato Camu, è stata essenziale negli investimenti in Giappone dopo Fukushima con la costruzione da zero di uno sviluppatore di energie rinnovabili che copre l’eolico terrestre, il solare e la biomassa; in Spagna, durante la crisi finanziaria globale, con l’investimento in una delle maggiori società di trasmissione e distribuzione del gas del paese che ha raddoppiato la propria base di asset regolamentati in cinque anni e, ancora, nell’investimento in una grande azienda europea di servizi pubblici, sostenendo la sua uscita da tutte le attività legate ai combustibili fossili per costruire parchi eolici offshore nel Regno Unito, in Danimarca e in Germania e, infine, lo è oggi negli Stati Uniti con l’Inflation Reduction Act.


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