Monna Chiquita, il (felice?) connubio tra arte e marketing

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Il caso della campagna pubblicitaria del noto marchio di banane, la vicenda del David di Michelangelo e alcuni spunti per un corretto approccio al marketing “artistico”

Seguendo una tradizione avviata ormai da diversi anni, fino al 2021 (per quest’anno, ancora tutto tace) il famoso brand del settore food Chiquita ha incaricato una giovane artista italiana, Mariangela Rinaldi, di rivisitare dodici opere di famosissimi maestri e trasformarle in una “collezione” di altrettante, coloratissime, etichette d’arte. L’iniziativa è stata accolta con reazioni opposte: da un lato, chi ha apprezzato questa forma di divulgazione del patrimonio artistico, nazionale e estero; dall’altro, chi ha ritenuto che in questo modo venga svilito il senso della creazione e il messaggio che l’artista voleva convogliare attraverso l’opera.
A prescindere dalle polemiche, il tema del connubio tra arte e marketing è effettivamente sempre scottante e delicato, anche dal punto di vista legale.Avevo già parlato, proprio per We Wealth, del caso, finito in tribunale, del David di Michelangelo. Il Ministero per i beni e le attività culturali (oggi Ministero della Cultura) aveva contestato l’operato di una agenzia di viaggi straniera, che offriva ai suoi clienti accessi ad alcuni musei italiani – tra i quali la Galleria dell’Accademia di Firenze – con visite guidate, a prezzi peraltro superiori a quelli praticati dalla biglietteria della galleria. Nel pubblicizzare la propria attività, l’agenzia aveva pubblicato sul suo sito internet e su un dépliant alcune immagini del David di Michelangelo.

Poiché l’agenzia non aveva mai richiesto (né ottenuto) alcuna concessione per la riproduzione per scopo di lucro delle immagini della celeberrima scultura, il Ministero rivendicava l’uso illecito dell’opera di proprietà statale: il Tribunale di Firenze (ordinanza del 26 ottobre 2017) ha accolto questa tesi, vietando lo sfruttamento a fini commerciali della scultura, ordinando il ritiro immediato dal commercio e la distruzione di tutto il materiale pubblicitario, online e offline, che ritraeva l’immagine dell’opera.

La sentenza è stata pubblicata su tre quotidiani a diffusione nazionale e tre periodici e l’agenzia condannata al pagamento delle spese legali, e, in caso di ritardo nell’adempimento alla decisione, di una penale.

Il caso in cui l’uso dell’arte a fini pubblicitari e commerciali sia il risultato di una vera e propria partnership (si pensi alla felice accoppiata Campari Soda/Fortunato Depero, grazie alla quale possiamo ancora oggi bere un aperitivo in una bottiglia “monodose e d’artista”, magari davanti a uno dei meravigliosi manifesti disegnati dal pittore, che per anni curò anche la comunicazione dell’azienda) rappresenta e deve rappresentare la regola.

Anche perché avventurarsi nell’impresa di utilizzare un capolavoro per sponsorizzare la propria attività senza aver individuato in anticipo i limiti (in realtà molto ristretti, vedi qui sotto) entro i quali sia possibile procedere senza il consenso dell’autore, rappresenta un enorme rischio.

Per l’Italia, il limite è dato dalla legge sul diritto d’autore (n. 633 del 1941) che contiene disposizioni in grandissima parte favorevoli all’artista, sia con riguardo ai diritti patrimoniali di quest’ultimo, che a quelli cc.dd. “morali”. Il principio generale, in sintesi, è quello per cui chi voglia utilizzare un’opera (di autore vivente o non), deve prima ottenerne il consenso, normalmente espresso sotto forma di “licenza d’uso” e per iscritto. Nel caso di autore defunto, la licenza andrà richiesta a chi ne ha “accolto” l’eredità: andrà perciò innanzitutto identificato l’erede, che potrebbe essere una persona fisica, ma anche, non dimentichiamolo, una persona giuridica (una fondazione, un’associazione riconosciuta, etc., spesso comunemente denominati “archivi” o “estate”).

Bisogna poi ricordare che non necessariamente (anzi!) chi ha la disponibilità fisica di una o più opere di un artista terzo dispone anche dei relativi diritti, patrimoniali, ma, soprattutto, morali.

Sarà indispensabile, allora, condurre un’indagine preventiva anche su questo aspetto. Infine, sarà fondamentale predisporre un accordo contrattuale che copra esattamente e integralmente le attività di uso commerciale dell’opera che si intendono svolgere: l’imprenditore non può permettersi di investire risorse su un progetto che l’artista, o i suoi eredi, potrebbero poi bloccare, perché non autorizzato. Ad esempio, se si intende sfruttare l’opera non solo offline, ma anche online (si pensi al caso di un oggetto che riporti la stampa di un quadro, e che si desidera commercializzare non solo in un negozio fisico, ma anche sul proprio sito di e-commerce o su un marketplace), sarà bene prevedere in contratto che la licenza d’uso viene concessa per la pubblicizzazione e messa in commercio attraverso tutti i canali.

Altro elemento indispensabile, è l’individuazione del territorio entro cui verrà condotta l’operazione di commercializzazione: venderò in tutto il mondo? Solo in Europa? O esclusivamente in Italia? Anche questo dato va specificato. Non bisogna poi dimenticare di prendere accordi con l’autore in tema di esclusiva: si desidera che l’opera oggetto di futuro marketing possa essere sfruttata in esclusiva solo dall’azienda partner o è possibile immaginare che essa venga utilizzata – all’esito di accordi paralleli tra l’artista e dei terzi – anche da altri, eventualmente anche concorrenti del partner? Come è facile immaginare, a fronte della richiesta di utilizzo in esclusiva, l’autore, in linea di massima, pretenderà di ricevere royalties più alte (con “royalty” si intende, appunto, il compenso pagato per lo sfruttamento dell’opera e per la concessione della relativa licenza). Infine, memori di quanto accaduto nel caso del David, ricordiamoci che l’utilizzo a fini commerciali di un bene culturale è disciplinato da norme ben specifiche, che, innanzitutto, esigono il preventivo rilascio di un’autorizzazione da parte del soggetto pubblico che ne è proprietario o gestore.

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