Mercati, cosa succede se la carenza di manodopera diventa strutturale

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Le conseguenze sociali della pandemia e l’invecchiamento della popolazione stanno disegnando i profili di un nuovo mercato del lavoro, e nemmeno la tanto temuta recessione potrebbe riportare completamente indietro le lancette dell’orologio. Vediamo cosa significa per investitori e operatori con gli esperti di Carmignac

Il mondo del lavoro è cambiato per sempre, ed è meglio che operatori e investitori ne prendano coscienza il prima possibile. È di questo avviso Frederic Leroux, Head of Cross Asset, Fund Manager di Carmignac, secondo cui “la carenza di lavoratori è destinata ad essere un fenomeno strutturale. La pandemia ha portato le persone a riconsiderare i propri equilibrio personali, facendo sorgere in loro nuove aspirazioni di vita in cui il lavoro non rappresene più una parte così centrale. E nel frattempo la popolazione continua ad invecchiare. Sebbene sia lecito aspettarsi che le contrazioni dei consumi e il calo del PIL riporteranno prima o poi il mercato del lavoro alla normalità, esso non sarà più quello a cui eravamo abituati”. Che cosa comporteranno queste nuove per operatori e investitori? Vediamolo insieme.

Un nuovo contesto

In molti paesi economicamente avanzati si è andata sviluppandosi una carenza di manodopera, mentre le previsioni indicano una crescita economica debole o addirittura negativa. Tale carenza è riconducibile agli effetti della pandemia, estremamente eterogenei e ancora percepiti in modo errato, in combinazione con l’invecchiamento demografico e nel nuovo contesto di inflazione.

Quote di pensionamento in % dei lavoratori attivi (16 anni e superiore), dati reali rispetto a quelli provisionali

Fonte: Consiglio dei Governatori della Federal Reserve – 3 Marzo 2023


Come si evince dal grafico della Federal Reserve statunitense, la pandemia Covid ha accelerato il pensionamento dei lavoratori americani, a conferma del desiderio di questi ultimi di mutare stile di vita. Ciò si è reso possibile dall’eccesso di risparmio accumulatosi dai piani di sostegno alle famiglie erogati dalle amministrazioni Trump e Biden e dalla riduzione forzata dei consumi per due anni. “Questa tendenza al prepensionamento – aggiunge Leroux – contribuisce al calo significativo del tasso di occupazione dei lavoratori attivi, accentuato dalla riduzione del numero di famiglie bireddito e aggravato dallo sviluppo del lavoro part-time, elementi che dimostrano che il valore che gli individui attribuiscono al lavoro nelle proprie vite non è più quello di prima”.

La pandemia ha dato un forte impulso anche allo smart working, i cui effetti sulla produttività, una volta superata l’iniziale ondata di euforia legato alla sua diffusione, devono ancora essere misurati sul lungo periodo. “La dimostrazione di un qualsiasi calo dell’efficienza darebbe luogo ad un aumento del fabbisogno di manodopera, di per sé già aggravato dall’indisponibilità significativa legata ai casi di long Covid che impediscono a molti di lavoratori di tornare a dedicarsi alle proprie mansioni al 100%”. Ma l’efficienza dei lavoratori non è l’unico fattore che il Covid ha messo in discussione nell’equazione del lavoro, in quanto la pandemia ha ridotto notevolmente anche i flussi migratori. “I policymaker dovrebbero quindi ragionare su come ottimizzare le proprie politiche migratorie, tenendo conto del trend di re-shoring delle produzioni strategiche e, contemporaneamente di quello di invecchiamento della popolazione, che riduce la manodopera disponibile”.

Alla luce di questi elementi viene dunque naturale chiedersi quale debba essere la durata della vita lavorativa attiva in un contesto di invecchiamento demografico. “Il caso del Giappone in cui l’invecchiamento demografico è andato di pari passo con la piena occupazione e il rallentamento dell’attività economica, dovrebbe farci sollevare degli interrogativi”.

Come se l’assottigliarsi della manodopera disponibile non fosse abbastanza, i tassi di occupazione risultano oggi piuttosto elevati nonostante una crescita economica piuttosto debole. “Quando l’inflazione si manifesta durante fasi di rallentamento o addirittura di recessione, il mercato del lavoro tende a rimanere teso per un bel po’. Questo perché i prezzi più elevati portano a maggiori profitti mascherando il calo dei volumi di vendita: ciò rallenta il management nell’implementazione delle misure necessarie ad abbattere i costi, in primis i licenziamenti. Per questo gli aggiustamenti endogeni del mercato del lavoro nelle recessioni inflazionistiche si rivelano di regola in un momento successivo e con modalità brutali”, conclude Leroux.

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