Mercati di frontiera: attraversare il confine per cogliere le opportunità

I mercati di frontiera potrebbero offrire nuove opportunità agli investitori, ma avventurarsi nell’ignoto richiede preparazione e pazienza. Flavio Carpenzano, Fixed income investment director di Capital Group, ne delinea opportunità e rischi

“I mercati di frontiera rimangono relativamente inesplorati per molti investitori, tuttavia possono offrire loro un’ulteriore gamma di opportunità, se bene informati”. Ad affermarlo è Flavio Carpenzano, Fixed income investment director di Capital Group. I frontier markets, infatti, “sono nella fase iniziale dello sviluppo economico, politico e finanziario, presentando al contempo molte delle stesse caratteristiche che i paesi emergenti tradizionali avevano anni fa con un grande potenziale di crescita”. Tuttavia, avverte l’esperto, muoversi correttamente sui mercati di frontiera richiede agli investitori di studiarne le caratteristiche e di adottare un approccio case-by-case.

Mercati di frontiera: alcune peculiarità

“Molti paesi emergenti tradizionali, come Messico, Russia e Sudafrica, sono ora molto più sviluppati di un tempo, con istituzioni e infrastrutture più stabili. In virtù di ciò, sarà difficile per questi paesi crescere allo stesso tasso dei decenni precedenti”. Gli investitori potrebbero quindi rivolgersi ai mercati di frontiera, terra di mezzo tra i mercati sviluppati e quelli emergenti, che si caratterizzano da popolazione giovane, motore di crescita del paese. Alcuni esempi sono da ritrovarsi nel Vietnam, Bangladesh e Pakistan in Asia; Arabia Saudita, Egitto e Oman in Medio Oriente; Kazakistan, Georgia e Slovenia in Europa; Nigeria, Kenya e Marocco in Africa; Colombia, Argentina e Perù in America Latina.
In un’ottica di diversificazione, gli investitori potrebbero quindi rivolgere lo sguardo ai frontier markets, i quali “storicamente hanno avuto una bassa correlazione con i mercati sviluppati ed emergenti, così come con altri mercati di frontiera”.
Le caratteristiche peculiari di questi mercati, infatti, li rendono meno esposti a ciò che accade oltre i propri confini. In primis, gli investitori sono tendenzialmente locali. Inoltre, i frontiers sono perlopiù indipendenti rispetto ai benchmark tradizionali dei mercati emergenti, facendo riferimento a indici a sé stanti, come l’MSCI Frontier Markets. Ancora, i frontiers risentono meno della volatilità dei tassi d’interesse e dei movimenti globali di valuta per via dei loro livelli di debito più bassi e la scarsa integrazione nei mercati globali. Viceversa, “gli investimenti nei mercati di frontiera tendono ad essere influenzati più dalla situazione politica o economica interna che da eventi globali. Per esempio, è improbabile che un cambiamento del regime politico in Egitto abbia un impatto sulle prospettive dello Sri Lanka”.

L’importanza di un approccio case-by-case e il conflitto Russia-Ucraina

Alla luce di ciò, “un approccio attivo ai fondamentali è cruciale per investire in questi mercati” continua Carpenzano. Ad esempio, la guerra in Ucraina sta causando effetti differenti sui mercati di frontiera: l’aumento dei prezzi delle materie prime dovuto al conflitto costituisce una forza trainante nelle loro economie, in quanto molti dei frontiers markets sono esportatori di commodities. Sebbene un rialzo dei prezzi sia di beneficio per i paesi che esportano materie prime, “l’impatto sull’inflazione potrebbe tuttavia essere significativo, dato che i panieri dell’indice dei prezzi al consumo (ipc) dei mercati di frontiera comprendono generalmente un’alta percentuale di beni alimentari ed energetici, sia rispetto ai mercati sviluppati che rispetto a molti altri mercati emergenti. L’aumento dei prezzi, pertanto, potrebbe inficiare sulla stabilità sociale se questi dovessero continuare a rimanere elevati.”.
Tale eventualità risulta meno problematica per quei frontier markets che sono anche grandi esportatori di petrolio, in quanto questi potrebbero beneficiare di maggiori entrate fiscali da utilizzare per i sussidi. La Nigeria, ad esempio, “dovrebbe assistere ad un aumento delle riserve in conto capitale, anche se ha mostrato problemi a incrementare la produzione di petrolio. La sua politica di elevati sussidi per il carburante limiterà gli effetti dell’inflazione, minando però allo stesso tempo il miglioramento dell’equilibrio fiscale”.
Al contrario, per i mercati che importano materie prime il rincaro del loro prezzo ha amplificato problemi già esistenti: “lo Sri Lanka ha dichiarato di essere pronto a rivolgersi al Fondo monetario internazionale (Fmi) se l’adempimento degli obblighi di debito dovesse diventare più oneroso, mentre il Pakistan stava già incontrando vincoli esterni da quando l’economia ha iniziato a riprendersi dal Covid-19 e ora un contesto di difficoltà delle riforme ha iniziato a gravare sullo stato in vista delle elezioni del prossimo anno”.
“Qualora il conflitto dovesse risolversi e se i prezzi delle materie prime dovessero conseguentemente stabilizzarsi, dovremmo attenderci un ritorno ai driver di lungo termine che guidano i mercati di frontiera. I paesi “motore della crescita”, come il Benin e l’Etiopia, così come altri più diversificati e ricchi quali Senegal, Costa d’Avorio e Kenya, dovrebbero tutti continuare a vedere elevati tassi di crescita strutturale mentre progrediscono verso lo status di paesi appartenenti ai mercati emergenti più tradizionali” conclude Carpenzano.

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