In città ci si ammala di più. La colpa è della perdita di biodiversità

La perdita di biodiversità è in costante aumento. Nelle città, diversi studi scientifici hanno dimostrato come questa si relazioni con l’insorgere di malattie nei residenti

Entro il 2050, circa il 70% della popolazione potrebbe vivere all’interno di aree urbane. È questo quanto stimato dalla Divisione popolazione delle Nazioni Unite nel rapporto 2018 Revision of World Urbanization Prospects. Sebbene la vita cittadina possa apportare una serie di benefici per i suoi abitanti, come maggiori opportunità lavorative, diverse ricerche scientifiche stanno evidenziando l’aumento di malattie infiammatorie croniche tra i residenti nelle grandi città. Secondo Natural immunity, una dei primi studi sul tema pubblicato nel 2012 dalla rivista di biologia molecolare EMBO Reports, “l’infiammazione è un elemento chiave in condizioni come asma e allergie, oltre che in malattie autoimmuni, in diversi tipi di cancro, e anche la depressione è stata associata alla presenza di marker infiammatori”.
La causa, secondo i ricercatori? La costante perdita di biodiversità che nelle città colpisce soprattutto il microbiota urbano, ovvero l’insieme di batteri, virus, funghi e altri microbi essenziali per la buona risposta immunitaria dei cittadini alle malattie.

La perdita di biodiversità è in costante aumento

Secondo il Millennium ecosystem assesment (Ma), iniziativa lanciata nel 2001 dall’allora segretario generale delle Nazioni Unite Kofi Annan e i cui risultati furono pubblicati nel 2005, il tasso di estinzione delle specie animali prima dell’avvento dell’uomo era compreso tra lo 0,001% e lo 0,01% ogni 100 anni. Nel 2005, tuttavia, tale percentuale era aumentata fino a raggiungere l’1%: per questo, il Ma prevedeva che nei successivi 100 anni circa il 20-30% delle specie esistenti si sarebbe estinto. “Come si vede in molti documentari, la biodiversità non è solo in pericolo: sta affrontando una crisi”, spiega Robert-Alexandre Poujade, ESG analyst di BNP Paribas Asset Management. “Il tempo è fondamentale: entriamo ora nel Decennio delle Nazioni Unite per il ripristino degli ecosistemi, la cui deadline per invertire il degrado e per raggiungere gli Obiettivi di sviluppo sostenibile è fissata al 2030”.
Con le difficoltà dei governi a mantenere il passo con gli obiettivi di sostenibilità, “è ancora più importante per il settore privato contribuire per affrontare il problema”, continua Poujade. La Natural Capital Finance Alliance, infatti, ha stimato che la metà del Pil mondiale dipende almeno in parte da un servizio ecosistemico: “il loro degrado comporterebbe un rischio significativo per le istituzioni finanziarie, da rendimenti minori a più alte probabilità di default, oltre che di passività assicurative. In maniera semplice”, ricorda Poujade, “il collasso degli ecosistemi consegue in un collasso economico”.

Città più verdi, come investire

Nel dialogo su come preservare la biodiversità, una grande parte è incentrata sul come gli spazi urbani interagiscano con il mondo naturale. Si aprono così interessanti opportunità per gli investitori”, continua l’esperto di BNPP AM. Ad esempio, investire nella sostenibilità dei mezzi tecnologici e delle risorse naturali utilizzati nella costruzione edile, così come nel loro trasporto, potrebbe ridurre la percentuale di carbonio operativo (ovvero le emissioni di gas serra dovute al consumo energetico degli edifici) e di quello incorporato (ovvero quelle derivanti dalla produzione, trasporto, installazione, manutenzione e smaltimento dei materiali da costruzione) presenti nell’atmosfera. Infatti, “rendere più verdi le città aiuta il processo di assorbimento di CO2, migliorando la qualità dell’aria e della vita”, conclude Poujade. “Queste sono solo alcune delle aree in cui il settore finanziario può intervenire per affrontare la perdita di biodiversità. Ora è il momento di affrontare questa crisi e di contribuire alla creazione di un ambiente migliore per le persone di tutto il mondo e per le specie con cui lo condividiamo”.

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