“Ero giunto a quel livello di emozione dove si incontrano le sensazioni celesti date dalle arti ed i sentimenti appassionati. Uscendo da Santa Croce, ebbi un battito del cuore, la vita per me si era inaridita, camminavo temendo di cadere”. Così lo scrittore francese Henri-Marie Beyle (meglio conosciuto come Stendhal) descrive nel libro “Napoli e Firenze: un viaggio da Milano a Reggio” l’episodio di cui fu vittima nel suo Grand Tour del 1817.
E proprio “sindrome di Stendhal”, come noto, è definita al giorno d’oggi l’affezione che provoca tachicardia, vertigini e senso di smarrimento in soggetti messi al cospetto di opere d’arte di straordinaria bellezza; secondo la letteratura medica, nelle manifestazioni più acute la sindrome può dar luogo ad atti d’isteria che portano anche alla distruzione delle opere.
Tra il serio e il faceto, mi chiedo se il proprietario di un’opera che ne sia affetto (e che distrugga, quindi, la predetta) possa essere chiamato a risponderne nei confronti dell’autore. Il quesito impone una breve riflessione.
Tradizionalmente, il diritto di proprietà viene ricordato come lo “ius utendi et abutendi”, con ciò valorizzando i poteri, quasi assoluti, di cui gode il proprietario.
Quando la proprietà ha ad oggetto un’opera d’arte, tuttavia, vi è una “compressione” del diritto dominicale, perché l’ordinamento riconosce il diritto dell’autore “di opporsi a qualsiasi deformazione, mutilazione od altra modificazione, ed a ogni atto a danno dell’opera stessa, che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione” (così l’art. 20 della legge sul diritto d’autore, o “LDA”).
In verità, dato che il diritto di proprietà e il diritto d’autore hanno entrambi rango costituzionale, il loro rapporto non è di agevole composizione.
Come dare soluzione, pertanto, all’interrogativo che ci siamo posti? In altre parole: il proprietario di un’opera d’arte sulla stessa ha una signoria piena ed esclusiva o, verso l’artista, risponde per la distruzione?
Banksy, Morning is Broken (2023)
Il murale era apparso su un muro esterno di un casale a Herne Bay, nel Kent,
ma è stato demolito dai costruttori edili che stanno riqualificando l’area.
Credits fotografia: Banksy/Instagram/Agenzia stampa.
Secondo la maggior parte degli studiosi che si sono occupati della questione, il proprietario che distrugge dolosamente un’opera d’arte (anche solo in parte) incorre in responsabilità.
A giustificazione si afferma che la distruzione si rifletterebbe negativamente sulla reputazione dell’autore, perché la perdita impedirebbe la completa ricostruzione del percorso artistico del Maestro.
La conclusione non convince del tutto.
Come già rilevato, la lettera dell’art. 20 LDA consente all’autore di opporsi ai (soli) atti a danno dell’opera che possano essere di pregiudizio al suo onore o alla sua reputazione: il pregiudizio, a mio avviso, non può essere “in re ipsa” nella distruzione dell’opera (specie se questa è un lavoro, per così dire, “seriale”).
Né, a voler ragionare diversamente (e abbracciando dunque la tesi della responsabilità del proprietario), militerebbe il fatto che l’art. 833 c.c. vieta i c.d. “atti emulativi” (ossia quelli che non hanno altro scopo che quello di nuocere o di recare molestia a terzi), in quanto, in difetto della prova della natura ingiuriosa per la personalità dell’autore, la distruzione andrebbe ritenuta una facoltà del proprietario.
Al quesito, pertanto, non si può dare una risposta valida in assoluto, dovendosi, viceversa, valutare il singolo episodio di danneggiamento, per comprendere se da esso è stato arrecato, o meno, un vulnus all’onore o alla reputazione dell’autore.
Com’è facile intuire, la distruzione di un’opera d’arte da parte del relativo proprietario è un’ipotesi se non propriamente “di scuola” (spigolando nei repertori di giurisprudenza si rinvengono casi in cui opere furono distrutte poiché ritenute portatrici di influenze nefaste) comunque molto remota.
Banksy, Morning is Broken (2023)
Il murale era apparso su un muro esterno di un casale a Herne Bay, nel Kent,
ma è stato demolito dai costruttori edili che stanno riqualificando l’area.
Credits fotografia: Banksy/Instagram/Agenzia stampa.
Non così, invece, per la cancellazione di una dedica, che avviene non di rado, e per i motivi più disparati: per celare la provenienza del soggetto che, ricevuta l’opera in dono, successivamente la vende; per meglio collocare l’opera sul mercato (in quanto molti collezionisti ritengono che le opere regalate dall’artista a terzi non siano le meglio riuscite) e così via.
Quid iuris, in questo caso? In una vicenda approdata alle aule di giustizia riguardante un dipinto di Antonio Bueno la Cassazione, annullando la condanna pronunziata in appello, ha escluso profili di illicietà. Nella parte motiva del provvedimento si afferma, infatti, che “la dedica non è tratto essenziale dell’opera, bensì semplicemente esprime la volontà dell’autore dell’opera di offrirla a taluno in segno di omaggio, affetto o similari, e nel contempo trasferisce al destinatario il titolo di proprietà; si pone, dunque, per non costituire il risultato di un lavoro intellettuale, tanto che, in genere, ed in ispecie nei dipinti, trova solitamente fisica collocazione sul retro della medesima”.
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In copertina: Banksy, Morning is Broken (2023), dettaglio. Credits fotografia: Banksy/Instagram/Agenzia stampa.